Quel “lascia un vuoto incolmabile” da necrologio, scritto non a caso.

La morte di Luca Ronconi é una tragedia per questo Paese (e lui, sull’argomento, ne sapeva di cose). La morte di qualsiasi personaggio della sua stessa caratura é una tragedia per questo Paese. Perché qui non potranno nascere altri Luca Ronconi, Edoardo Sanguineti, Pier Paolo Pasolini, Goliarda Sapienza, Anna Magnani, Federico Fellini e poi a voi continuare elenco a piacere. Questa ingombrante eredità culturale verrà storicizzata, entrerà nei libri di scuola come nei musei e poi basta più. Nessuno che sia veramente in grado di raccoglierla senza rannicchiarcisi dentro. Di innovarla, senza vivere di rendita. Tentare – e qui azzardo – di superarla anziché banalizzarla e vivere all’ombra della melanconia. Figurati!

É chiaro che la morte di Luca Ronconi sia veramente una tragedia per una nazione dove un Ministro dell’Economia ha potuto deliberatamente affermare che con la cultura non si mangia, proprio qui, chiamato il “Bel Paese” non a caso. É una tragedia, se si pensa che a vincere qui é sempre il meno peggio ché il meglio non esiste e, se c’è, facciamo di tutto per mandarlo via. E se torna, facciamo di tutto affinché si adegui ad essere il meno peggio, nel peggio che ormai é diventato questo Paese.

La morte di Luca Ronconi é una tragedia per un Paese che oggi si indigna per il barbaro trattamento che gli ultras del Feyenoord hanno riservato alla Barcaccia dei Bernini e nessuno che si indigni per Pompei, per la Reale Villa di Carditello – che se venisse giù domani farebbe un gran favore alla Camorra – per il nostro paesaggio deturpato e giornalmente mortificato. E nessuno che si accorga che chiudono i teatri e aumentano le sale gioco e i centri commerciali, però siamo tutti in prima fila quando c’è da lamentarsi e dire che le cose non vanno bene.

La morte di Luca Ronconi é una tragedia per questo Paese. Ma di questa, in particolare, non sono del tutto convinta che avrebbe gradito firmarne la regia.

Le battaglie per i diritti di genere vanno combattute tra i banchi di scuola.

Quando ho sentito proferire a un maschio di cultura media la frase “una donna non può vivere da sola. Metti che ha bisogno di un idraulico perché le si rompe lo scaldabagno, lo riceve a casa da sola?”, giuro, ero sobria e quelle parole le ho sentite distintamente. E sulle prime ho riso di gusto perché io ho vissuto con due donne che hanno fatto sempre tutto da sole. E quando a casa abbiamo avuto bisogno di un idraulico per lavori di ordinaria manutenzione, il fatto che si trovasse davanti tre donne sole, non lo ha mai autorizzato a prendersi libertà che andassero oltre la prestazione professionale per cui era stato chiamato.

E, a dirla tutta, quando cresci con due donne che fanno tutto da sole, è inevitabile perdere i confini dei ruoli di genere. Non ci sono cose “per donne” e cose “per uomini”. Ci sono cose “giuste” e cose “sbagliate”, c’è il “bene” e il “male”, c’è “la propria identità” e “quella di chi ti circonda”. E sono uomini, e sono donne.

Quindi sì, ho riso di gusto. Ma poco dopo, mi sono sentita mortificata. Non arrabbiata, mortificata. E non perché ferita in qualche modo nel mio orgoglio di donna, ma perché convinta che a pensarla così non sarà uno solo e non saranno solo uomini.

Diciamocelo tra di noi, oggi che è il 25 novembre Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: le rivendicazioni di genere sono innanzitutto un fatto culturale che non possono essere “calate dall’alto” e funzionano solo in Paesi con un alto livello di scolarizzazione e di coscienza civica. Questa coscienza di genere, ad oggi in Italia, è solo appannaggio di chi ha un livello culturale medio-alto, un fatto di élite. L’istruzione, come mezzo trasversale e aperto a tutti, dovrebbe fare breccia in tutte le fasce sociali, a prescindere dalla possibilità del singolo di avere accesso a un’alta formazione culturale, perché il messaggio deve arrivare tanto alle donne, quanto agli uomini, di ogni fascia sociale e culturale. Fino a che le rivendicazioni di genere avranno la voce di pochi, anche le istituzioni rimarranno sorde al richiamo perché non costituirà una priorità. Solo quando costituiranno un’esigenza collettiva, sarà possibile un’azione più incisiva.

Io non sono femminista, non lo sono per educazione e per principio. Sono convinta che nelle questioni sociali debbano essere responsabilizzati indistintamente uomini e donne e gli strumenti per farlo esistono. Manca la volontà, collettiva e non di genere.

Pensavo fosse rabbia e invece era “Gelato al cioccolato”.

Avete presente quelle situazioni di panico lì, dove due fidanzati trasformano una constatazione amichevole in una partita a Call of Duty? Quelle situazioni lì, al confine tra l’omicidio premeditato e l’isteria pazza? Ecco, io ho avuto un fidanzato – diversi fidanzati fa – che amavo alla follia e per noi questi momenti qui funzionavano un po’ da amalgama per la nostra relazione di coppia. Ora, non che io abbia mai avuto relazioni serene con il genere umano, ma finché riuscivamo a raggiungere comunque la pace estatica dei sensi, io sapevo che non lo avrei mai lasciato.

Le cose presero una piega inaspettata il giorno in cui tutto questo manicomio diventò routine e accadde una cosa che ad oggi io reputo inspiegabile. Perché una volta, una delle tante, in cui lui era lì lì per mollarmi e io dovevo fare di tutto per non farlo andare via, la rabbia che covavo dentro si mutò in qualcosa di inaspettato, che nella mia testa prese le sembianze di Pupo e mi parlava attraverso i versi di Gelato al cioccolato, che in quel momento mi resi conto erano perfettamente in sincrono con la discussione appena avviata!

(pa papapa parapa papapara)

– LO SAI COSA DOVREI FARE ADESSO? DOVREI MOLLARTI QUI E ANDARE VIA!
(“ma dove vuoi andare ti amo, papparapa”)

– MI STA SFIANCANDO QUESTA SITUAZIONE!
(“ti annoi va bene balliamo, papparapa”)

– MI FAI CAPIRE COSA CAZZO TI STA PASSANDO PER LA TESTA???????
(“gelato al cioccolato dolce e un po’ salato tu gelato al cioccolato, papparapa)

E questa situazione qui si presentava tutte le volte in cui, per una ragione o per un’altra, avevamo qualcosa di cui discutere.

LITIGIO – FASE DI ROTTURA – PUPO.
LITIGIO – FASE DI ROTTURA – PUPO.

Io vivevo la cosa con sommo imbarazzo e in quegli istanti ero sempre combattuta tra il dire cosa stessi pensando realmente o tramutare tutto in una crisi abbastanza convincente di pianto. E ora, sinceramente, chi di voi avrebbe mai il coraggio di dire ad un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, che fa caldo ma qui si sta meglio, la sabbia è più bianca stasera ma dimmi che sei proprio vera?

Siccome riuscivo a riprendermi sempre in maniera piuttosto elegante, la nostra relazione andò avanti ancora per un po’ fino alla sera in cui toccammo il punto di non ritorno, io entrai nella sua auto e lui guidò a 180 in autostrada per riaccompagnarmi a casa. Lungo tutto il tragitto lui non parlò e io non pensavo a niente. Quando arrivammo sotto casa mia, spense la macchina e mi fece una domanda che in quel momento rappresentava La domanda:

– Hai qualcosa da dire?

Io ero piuttosto commossa perché per la prima volta Malgioglio (autore del testo della canzone) non aveva abbrutito le mie sinapsi e sapevo che se mi fossi concentrata un tantino avrei trovato quella frase ad effetto con cui non mandare tutto a puttane. Ma non arrivava. Aspetta forse… No, niente. Vuoto che manco la città in pieno Ferragosto. Allora lui senza girarsi, stringendo fortissimo le mani sul volante dell’auto, mi chiese:

– C’è qualcosa di tuo che hai lasciato a casa mia e vuoi riavere?

Fuori era tutto buoi e c’era freddo, io aprì lo sportello della macchina e volevo piangere, ma preferì andare via senza dir nulla perché la valigia sul letto, quella di un lungo viaggio la trovavo proprio una risposta fuori luogo.

Senza rimpianto.

Cugino Andrea, anni 11, classe una-a-caso della scuola media dell’obbligo. In un tema di cui non ricordiamo il titolo, l’insegnante chiede di elencare cosa piace e cosa no del posto in cui vive. Alla parola svolgimento, seguono queste parole:

[…] io credo che questo posto abbia numerose potenzialità e tutte mal sfruttate. Potremmo vivere grazie al turismo e invece i turisti li facciamo passeggiare in mezzo alle discariche a cielo aperto, all’immondizia lasciata nei parchi e nelle spiagge e non abbiamo nessun rispetto per tutta la bellezza che ci circonda. Non ci meritiamo niente e senza di noi questo sarebbe di certo un posto migliore.

Andrea – che da grande vuole fare il giornalista ed é già un potenziale elettore di SEL – ha già capito di essere spacciato. E siccome la consapevolezza è il primo passo lungo la strada della redenzione, inutile disilluderlo. Pertanto l’insegnante liquida l’elaborato con un buon voto e addio. Lo spunto di riflessione di questo bambino andrebbe invece approfondito e l’insegnante a buon diritto dovrebbe ritagliarsi pochi minuti di lezione per giustificare al suo giovane uditorio perché domani questi ragazzini dovranno scegliere tra l’espatrio e una vita di merda.

E quando Andrea a chiesto a me cosa ne pensassi del suo tema, non me la sono sentita di rovinare gli sforzi didattici di una pubblica impiegata che si applica al mestiere dell’insegnamento con la stessa passione con cui un addetto delle poste ti fa firmare un vaglia. Quindi l’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto “Andrea tu devi sempre tenere una valigia pronta sotto al letto e non perché viviamo in una zona ad alto rischio sismico. La devi tenere lì perché un giorno ti scasseranno tutti la minchia e se ti lamenti diranno che sei sbagliato e le persone che si lamentano hanno sempre torto. E le cose che vorrai fare non andranno mai bene e troverai sempre gente più competente di te anche se non lo é. Dovrai scontrarti ogni ora del giorno con l’ignoranza e siccome quando gli ignoranti sono più dei saggi, il saggio diventa automaticamente ignorante, ti toccherà passare a vita per coglione. E ti sentirai dire no un sacco di volte e pochissime sì. Pero’ tu non devi mollare e anzi cercare in tutti i modi di rimanere sempre coerente con te stesso. E il giorno che non ce la farai più avrai già la valigia pronta e potrai andare via e non tornare mai più.”
“E tu perché sei ancora qui?”
“Perché non ho la valigia pronta ma dammi tempo di prepararla e andiamo via insieme. Senza rimpianto”. 

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? S’è capito chi deve deciderlo?

Io vi devo confessare una cosa che quando l’hanno detta a me ci sono rimasta così male che ancora devo riprendermi. Questa cosa qui si chiama era di acquario, ci siamo entrati il 21 dicembre e non ne usciremo prima dei prossimi tremila anni. Un’era di cambiamenti profondi e inimmaginabili, ciò nonostante saremo soggetti a una depressione fredda, ovvero la perdita della capacità di provare emozioni. La nostra sensibilità diminuirà, ci sentiremo estranei e reagiremo in maniera molto blanda agli effetti esterni. Ci sentiremo stanchi e schiacciati dal peso della gravità, ci faremo così schifo la sera guardandoci allo specchio che la mattina dopo eviteremo direttamente di svegliarci. Perlomeno si assisterà ad una democratizzazione delle occhiaie e delle borse sotto gli occhi.

Quello che sta avvenendo in Italia è la prova che quanto detto non sono semplici speculazioni New Age. A profetizzare l’era di acquario – insieme ai movimenti hippie e all’esoterismo – è stato lo stesso Piero Fassino, prevedendo il nascere di un movimento politico nato dal basso, primo partito in Italia, guidato da un comico di professione e non da un comico che fa il politico. La parola si è fatta verbo e tutto si è compiuto come da vaticinio. E se non bastasse, a conclamare il bordello ancestrale nel quale ci siamo cacciati ci pensano tv e giornali, che ogni sacrosanta ora del giorno e della notte, ci mettono difronte a un dubbio che Amleto in confronto era uno con le idee chiare: cosa farà Grillo?

Grillo è l’elemento y che si inserisce in un sistema x e siccome nessuno sa come si comporta y in x, si entra nel panico. Ché poi, a dirla tutta, y l’ha detto chiaro e tondo come vuole comportarsi nel sistema x – l’ha detto così tante volte che, se volete, ve lo decanto pure io in dolce stil novo – ma a x la risposta non piace. X vuole una risposta x, mica una risposta y e giù il caos. Era di acquario: non si scappa. Così, siccome la risposta y non soddisfa, tutti sono chiamati a capire se Grillo cederà a una risposta x. Il tema cosa farà Grillo? tiene così in tensione il Paese che orde di opinionisti tv sono chiamati a rispondere, cercando di “icsizzare” il pensiero y, rendendolo politically correct. Ad esprimersi sull’argomento chiamano proprio tutti, inclusa la signora Maria che abita due porte dopo la mia. “Ma io volevo far parte del pubblico di Benedetta Parodi” “No, serve un opinionista tv a Coffe Break. Dobbiamo capire cosa farà Grillo”.

Siamo attorniati da così tanti programmi di approfondimento politico che stiamo rimpiangendo la campagna elettorale. Quasi lo preferisci Berlusconi su Rai3 a parlare di condono tombale, almeno puoi illuderti che stia già pianificando la sua vita nell’aldilà. Invece quelli lì li abbiamo già votati e non possiamo manco tornare indietro, che Napolitano è nel suo semestre bianco e non puo’ far nulla. Qualcuno gli ha suggerito di farsi venire la congiuntivite sebbene c’è chi, per rinnovargli il mandato, è pronto a sequestrarlo in Quirinale con la moglie. Voleva rimanere in Germania, ma gli hanno detto che c’abbiamo due clown e lui s’è sentito offeso perché di Moira Orfei ha gli stessi anni ma non la stessa capigliatura.

Così, a prendere in mano la situazione ci provano gli intellettuali. Loro non si chiedono cosa farà Grillo, loro invitano il diretto interessato a fare qualcosa, a farla con il PD e per il bene del Paese. Prima di lanciare l’accorato appello dalle pagine de L’Espresso (o era Repubblica?) si sono confrontati con il leader del Partito Democratico. Hanno chiesto a Bersani cosa intendesse fare – prima si sono accertati che Bersani fosse ancora il leader del Partito Democratico – e vista la sua confusione (è in stato confusionale da quando sa di aver perso pur essendo arrivato primo) hanno compreso che bisognava agire, perché anche al PD aspettano ancora di capire cosa intenda fare Grillo. A Berlusconi non guarda nessuno, anche perché lui non riuscirebbe a ricambiare lo sguardo. Ha la congiuntivite, l’ha rubata a Napolitano, tanto a lui non serviva.

E’ l’era di acquario e quella non perdona.
E noi? Sono 13 giorni che ci dicono qualcosa sta cambiando. I primi giorni c’abbiamo creduto, poi s’è verificato l’effetto Titanic: abbiamo beccato in pieno l’iceberg, non s’è capito se le scialuppe basteranno per tutti e intanto l’orchestra continua a suonare. Depressione fredda, è il prossimo passo. Ci sentiremo estranei a tutto, guarderemo il tg con la stesso fastidio con cui senti il campanello di casa suonare alle 8:00 della domenica mattina, quando non aspetti nessuno e siccome non rispondi, il campanello suona due volte (e di domenica stai certo che non è il postino). Allora proveremo a incazzarci con qualcuno ma non ne c’avremo più voglia che ormai ce la siamo presa con tutti – ma proprio tutti – e ancora nessuno avrà capito che cosa farà Grillo. Diventeremo socratici, aristotelici anche, attenendoci al detto secondo cui se hai un problema e la rispettiva soluzione, è inutile preoccuparsi e se hai un problema e nessuna soluzione, allora mettiti l’anima in pace che tanto non ci sta niente da fare. Ci hanno promesso la rivoluzione, ma si sono dimenticati di dirci come si fa.

E se tredici giorni di confusione legislativa vi sembrano troppi, ricordatevi che l’era d’acquario durerà tremila anni. La buona notizia è che Grillo non camperà così a lungo, la notizia cattiva è che nel frattempo l’era d’acquario avrà fatto fuori pure noi.

Josefov

“Sai che si fa? Si lascia perdere tutto. Abbassiamo le serrande e andiamo via. I vicini penseranno che non siamo in casa, ma che importa? Tanto qui dentro potresti anche morirci che non fregherebbe niente a nessuno. E invece oggi usciamo, per ricordarci di essere vivi. E attraverseremo Ponte Carlo mano nella mano, ridendo dei ritratti imperfetti con cui i ritrattisti corteggiano le attempate signore. Sai che si fa? Si sorride alla gente come se conoscessimo tutti e in ognuno di loro vedessimo noi. Sorrideremo al droghiere e al calzolaio, al poliziotto e al borsaiolo, ché in tempi come questi non si capisce bene chi giochi a fare la guardia e chi il ladro. Sai che si fa? Si fa finta di abitare in un posto diverso, dove fa caldo anche a gennaio. E via quei cappotti che ci rendono goffi e quei cappelli di feltro che stringono alle tempie e non lasciano andare via i pensieri. Inventiamo una lingua che non conosca Dio ma solo uomini, che non serva a pregare e dove non esistano servi e padroni, ché non servirà distinguerli nel posto che abiteremo. Sai che si fa? La terra che ci hanno promesso ce la costruiamo da soli, mattone dopo mattone. Io non ho ben chiaro quale sia il progetto divino per noi, ma se è questo il prezzo da pagare, Yahweh ci perdonerà se ci accontenteremo di quel poco che basta agli uomini per essere felici”.

(Praga, inverno del 1943)

L’elettore di sinistra, ovvero sintomatologia del malessere da campagna elettorale.

Io sono un’elettrice di sinistra, critica e insoddisfatta. Una di quelle a cui è rimasta l’emozione dell’aver virato a manca, trovandoci dentro un guazzabuglio informe di idee e progetti che di quell’emozione hanno solo una pallida eco. Perché tutti noi diventiamo di sinistra per un’emozione (cit), solo che poi l’emozione diventa turbamento e tu rimani a sinistra un po’ per abitudine e un po’ per qualcosa che sembra coerenza ma che somiglia di più alla sindrome di Peter Pan. Perché l’elettore di sinistra è uno che non sa crescere, trascinandosi dietro quel senso di inferiorità tipico delle minoranze. Io ho fatto parte della minoranza sin dal liceo, in classe stavamo 8 a 12 e la mia scuola era più nera della pece. Anche in famiglia sono stata una minoranza in un covo di centristi cattolici e quando annunciai di essere atea e di sinistra, ricordo che mia nonna cominciò ad aspergermi con l’acqua benedetta.

Eppure in questo ghetto della minoranza, l’elettore di sinistra si sente al sicuro. Nessuno di noi è pienamente soddisfatto, ma questo mal comune è un mezzo gaudio che ci rende tutti delusi e inappagati alla stessa maniera. E’ una delle forme di democrazia più alta del consociativismo umano. Prima ancora delle primarie, la sinistra ha inventato la tristezza dell’esser di sinistra e ci ha resi tutti uguali. Tanti piccoli Evair immersi nella nebbia del bergamasco, che rimpiangono São Paulo do Brazil. Una saudade eternamente rinnovata, che tocca l’apice durante la campagna elettorale. Perché quello che in campagna elettorale la sinistra italiana chiede oggi al suo elettore non è una semplice adesione, una rinnovata fiducia, ma un vero e proprio atto di fede. In campagna elettorale la sinistra sa farsi una e trina, toccando picchi celestiali di ubiquità divina.

La sinistra é a sinistra, ma anche al centro e in ogni dove. È tutto un proliferare di nomi e di simboli e noi, elettori, che siamo uni e basta, non sappiamo che fare, chi scegliere, schiacciati da questa grandezza. Se prima ci sentivamo impotenti e soli, in campagna elettorale noi di sinistra ci sentiamo impotenti e confusi. Siamo tutti dalla stessa parte, ma siamo tutti diversi e allora vorremmo capire chi é fuori posto e finisce che gli unici a sentirsi fuori posto siamo noi. E mentre i dirigenti di partito pensano a possibili alleanze post-elettorali, ti chiedi perché non pensiamo ad allearci prima tra di noi. Guarda com’è bravo Grillo a riempire le piazze. Noi, uniti, non faremmo invidia a nessuno. Ognuno porta i suoi e a tener banco ci si alterna. Perché condannarci senza sconto a una sindrome bipolare senza soluzione di continuità?

Eppure il nostro impegno andrebbe premiato, ché sarebbe ben più semplice rimpolpare l’elettorato altrui, salir sul carro del vincitore, strizzare l’occhio ai populismi e alle liste civiche, anziché ancorarci alla speranza del nostro credo politico. Diventiamo di sinistra per un’emozione, dicevo. E anche un po’ per masochismo, ma soprattutto per nostalgia. Nostalgia di quel volo di gabbiano cui accennava Gaber in Qualcuno era comunista. Diceva: Era come due persone in unaDa una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Che poi, anche lui aveva capito che è stato più lungo il planare verso terra che il rimanere in aria. Fatto sta che anche oggi, l’elettore di sinistra è destinato a sentirsi un po’ gabbiano e un po’ coglione. Anche sopra il 40% di preferenze, rimaniamo una minoranza. Tante solitudini in una.

Siamo destinati a diventare specie protetta, col vantaggio che avremo un solo simbolo a rappresentarci. Quello del WWF.

Fenomenologia del Capodanno (e del perché, in fondo, io schifo pure quello)

Le idiosincrasie da feste comandate meriterebbero uno studio serio e attento, tenendo conto del fatto che esse possono nascere già in tenera età e hanno tutto il tempo di maturare nel corso dell’adolescenza e ancora dopo. Il 27 dicembre di ogni anno, tiri un sospiro di sollievo pensando che il peggio è passato ma al peggio non c’è mai fine ed è allora che realizzi l’arrivo imminente del Capodanno.

Lo sai da 365 giorni (366 se bisestile) che Capodanno cade di dicembre ed è 31, ma è un pensiero che ti togli dalla testa già il giorno dopo per ricordatene solo il giorno prima dell’anno successivo. E la ragione è evidente: un giorno come il Capodanno lo vuoi dimenticare subito.

In primis organizzatori di eventi e affini hanno reso senza dubbio difficile fare un distinguo tra Ferragosto e Capodanno, difficoltà annualmente rinnovata e resa evidente dalle grandi catene di abbigliamento che propongono per la seconda ricorrenza lo stesso abbigliamento che per la prima, costringendo te a migrare in Australia per dare senso al tuo acquisto. E poi, l’amletico dubbio, a cui generazioni di filosofi hanno provato a dare risposta: chi siamo? Da dove veniamo? Cosa facciamo a Capodanno? 

Non lo sa! A questa risposta l’italiano medio fa spallucce, si sente braccato nella morsa dell’indecisione. E per non sentirsi solo, coinvolge il resto del mondo in una panteistica rottura di coglioni, sicché almeno fino alla notte del 30 dicembre, tutti quanti, in una corale unità d’intenti e sentimento, stiamo a domandarci cosa faremo a Capodanno. Questo ci rende uniti e al contempo fragili, correndo il rischio di venire trascinati, in balia degli eventi, alla festa sbagliata con gente che non conoscevi fino a due minuti prima di sederti a tavola e che comunque – perché altrimenti sembra brutto – abbraccerai con ardore allo scoccare della mezzanotte, come se foste compagni da una vita.

Per tenere la barra dritta e non perdere di vista l’obiettivo, è necessario trovare l’amico che scelga per tutti, colui a cui toccherà il compito di proporre la stessa cosa dell’anno precedente facendo da parafulmine ai malumori generali, pur sapendo che è l’unica via d’uscita, giacché tra un po’ anche il Capodanno è passato e toccherà organizzare la Pasquetta. Ché poi in fondo non ti dispiace nemmeno. Di certo è sempre meglio che passare il Capodanno chiusa in macchina nel parcheggio di un locale, una mano sulla sua fronte, la sua testa fuori dal finestrino, e il cenone di capodanno che risale su accompagnato da un discreto numero di cocktail. Ma questa è un’altra storia, che durò poco, nonostante le promesse romantiche tra un conato e l’altro.

Fenomenologia del Natale (e del perché, qui, si preferisca il Capodanno).

Se pensate che tutto si sia concluso con la caduta del muro nell’89, vi invito a riflettere sul fatto che tutt’ora, nel mondo, vi è una guerra fredda eternamente rinnovata, che vede da un lato coloro che il Natale lo amano, lo attendono, e coloro che lo schifano proprio tanto che il count-down per l’anno nuovo cominciano a farlo già dall’8 dicembre, quando abeti rivestiti in poliuretano fanno bella mostra di sé in salotto, addobbati con tutto quanto sia possibile appendervi sopra. Una volta noi, lo usammo persino come appendi abiti giacché eravamo a corto di sedie e non avevamo più dove poggiare i cappotti e nessuno, comunque, voleva sedersi sull’albero.

La mia famiglia è l’esempio lampante di come il Natale possa essere causa e pretesto di veri e proprio drammi familiari, insidioso quasi quanto il dito tra moglie e marito. I contrasti più forti avvengono nella particella familiare originaria, quella costituita da me e mia madre. Entrambe schifiamo il Natale come i gatti schifano l’acqua, entrambe detestiamo questo buonismo innevato, questa melliflua serenità tuttavia mia madre ci prova, ogni anno, ad approcciarsi con diplomazia alla festa, tentando di prenderla con il piede giusto: addobbando l’albero, riscaldando la casa con fiocchi rossi, incartando regali. Io ho un approccio più sfacciato e pratico: non me ne frega niente, i regali li faccio perché vi rendono felici, ma se posso scegliere, preferisco andare a letto presto anzi non svegliarmi proprio, fino almeno al 27 dicembre. Questa distanza di vedute, ha innescato negli anni un gioco psicologico illogico e fortemente distruttivo per cui io, per farle piacere, nonostante preferirei dedicarmi a una retrospettiva con proiezione no-stop di tutta la filmografia di Kieślowski, mi prodigo affinché lo spirito del Natale si incarni in me, compenetrandomi così tanto nella cosa da sentirmi al contempo Gesù Bambino, la Madonna, San Giuseppe, il bue e l’asinello, ma è proprio ciò che fa incazzare mia madre come poche altre cose al mondo. E la tradizione vuole che ogni Natale si litighi, per cose di cui a nessuna delle due frega una mazza nei 364 giorni restanti ma che a Natale assumono un valore mai avuto prima. Ricordo ancora storie di vestiti messi una volta e mai più usati per cui, tuttavia, senti un’attrazione fatale il 24 Dicembre e che non trovi più e la colpa bisognerà pur darla a qualcuno; l’errore letale nella preparazione di un tiramisù che ha aperto scenari sull’irresponsabilità cosmica della gioventù di oggi; il disordine, che è sempre lo stesso, ma che a Natale cresce in maniera esponenziale e dove stanno 3 cose, improvvisamente, quelle diventano 10, 20, 333 mila ed è subito il caos e giù prediche atte a confutare in maniera definitiva che la leggerezza dell’essere no, non è insostenibile come diceva Kundera e che lui nonostante tutto è ancora vivo e noi, invece, di questo passo, dove finiremo?

Questo obbligo di esser buone a Natale, almeno a Natale, ci logora e distrugge. Questa sfida aperta a chi è più brava delle due a mantenere il proposito, puntando il dito contro l’altra se si è venute meno all’obbligo, si rinnova con regolare ciclicità ché anche a voler far finta di niente, a voler dire che il Natale non esiste, a ricordarci che il Natale è vivo e lotta insieme a noi, provvedono le chiamate dei parenti, gli inviti a pranzo o a cena, i regali che santocielo! non me ne voglia nessuno ma non puoi regalarmi le stesse cose da un quarto di secolo che c’ho più pigiami io della Regina d’Inghilterra e no, non è sul pile che posso fondare un solido rapporto di coppia.

Anche adesso, scrivo barricata in un anfratto buio e recondito di casa mia, che è 25 già da quasi 12 ore e qui non si fanno eccezioni alla regola. Ho capito che la situazione stava prendendo una brutta piega quando, dal piano di sopra, ho sentito lo squillo del telefono accompagnato da una sedia che strisciava minacciosa sul pavimento. Ma non temete, tra poco più di 12 ore sarà tutto finito. Buon Natale!

Le primarie

A metà strada dalla sezione del PD a me più prossima, ho sentito il bisogno di accostare la macchina. Ho tirato il freno a mano, ho stretto le mani sul volante e ho ripassato tutti i nomi dei candidati alle primarie. Su cinque, due non mi dicevano assolutamente niente che prima d’ora non li avevo neanche sentiti nominare. Ne rimanevano tre, ma ho pensato che di questi uno tanto di sinistra non si poteva considerare, quindi mi sono ritrovata con due nomi tra cui dover scegliere. “Pensa a chi è più leader, pensa a chi è più leader”. Allora ho cercato di capire chi, tra i due, potesse avere quel carisma necessario a tenere unita la sinistra italiana, a guidare il partito alle prossime elezioni e, cosa ben più importante, a far sì che il governo che verrà sia in grado di risollevare il Paese. Quindi non ho avuto altra scelta che tornare a casa, perché se avessi messo piede in quella sezione del PD, avrei fatto come minimo una carneficina.