Senza rimpianto.

Cugino Andrea, anni 11, classe una-a-caso della scuola media dell’obbligo. In un tema di cui non ricordiamo il titolo, l’insegnante chiede di elencare cosa piace e cosa no del posto in cui vive. Alla parola svolgimento, seguono queste parole:

[…] io credo che questo posto abbia numerose potenzialità e tutte mal sfruttate. Potremmo vivere grazie al turismo e invece i turisti li facciamo passeggiare in mezzo alle discariche a cielo aperto, all’immondizia lasciata nei parchi e nelle spiagge e non abbiamo nessun rispetto per tutta la bellezza che ci circonda. Non ci meritiamo niente e senza di noi questo sarebbe di certo un posto migliore.

Andrea – che da grande vuole fare il giornalista ed é già un potenziale elettore di SEL – ha già capito di essere spacciato. E siccome la consapevolezza è il primo passo lungo la strada della redenzione, inutile disilluderlo. Pertanto l’insegnante liquida l’elaborato con un buon voto e addio. Lo spunto di riflessione di questo bambino andrebbe invece approfondito e l’insegnante a buon diritto dovrebbe ritagliarsi pochi minuti di lezione per giustificare al suo giovane uditorio perché domani questi ragazzini dovranno scegliere tra l’espatrio e una vita di merda.

E quando Andrea a chiesto a me cosa ne pensassi del suo tema, non me la sono sentita di rovinare gli sforzi didattici di una pubblica impiegata che si applica al mestiere dell’insegnamento con la stessa passione con cui un addetto delle poste ti fa firmare un vaglia. Quindi l’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto “Andrea tu devi sempre tenere una valigia pronta sotto al letto e non perché viviamo in una zona ad alto rischio sismico. La devi tenere lì perché un giorno ti scasseranno tutti la minchia e se ti lamenti diranno che sei sbagliato e le persone che si lamentano hanno sempre torto. E le cose che vorrai fare non andranno mai bene e troverai sempre gente più competente di te anche se non lo é. Dovrai scontrarti ogni ora del giorno con l’ignoranza e siccome quando gli ignoranti sono più dei saggi, il saggio diventa automaticamente ignorante, ti toccherà passare a vita per coglione. E ti sentirai dire no un sacco di volte e pochissime sì. Pero’ tu non devi mollare e anzi cercare in tutti i modi di rimanere sempre coerente con te stesso. E il giorno che non ce la farai più avrai già la valigia pronta e potrai andare via e non tornare mai più.”
“E tu perché sei ancora qui?”
“Perché non ho la valigia pronta ma dammi tempo di prepararla e andiamo via insieme. Senza rimpianto”. 

Josefov

“Sai che si fa? Si lascia perdere tutto. Abbassiamo le serrande e andiamo via. I vicini penseranno che non siamo in casa, ma che importa? Tanto qui dentro potresti anche morirci che non fregherebbe niente a nessuno. E invece oggi usciamo, per ricordarci di essere vivi. E attraverseremo Ponte Carlo mano nella mano, ridendo dei ritratti imperfetti con cui i ritrattisti corteggiano le attempate signore. Sai che si fa? Si sorride alla gente come se conoscessimo tutti e in ognuno di loro vedessimo noi. Sorrideremo al droghiere e al calzolaio, al poliziotto e al borsaiolo, ché in tempi come questi non si capisce bene chi giochi a fare la guardia e chi il ladro. Sai che si fa? Si fa finta di abitare in un posto diverso, dove fa caldo anche a gennaio. E via quei cappotti che ci rendono goffi e quei cappelli di feltro che stringono alle tempie e non lasciano andare via i pensieri. Inventiamo una lingua che non conosca Dio ma solo uomini, che non serva a pregare e dove non esistano servi e padroni, ché non servirà distinguerli nel posto che abiteremo. Sai che si fa? La terra che ci hanno promesso ce la costruiamo da soli, mattone dopo mattone. Io non ho ben chiaro quale sia il progetto divino per noi, ma se è questo il prezzo da pagare, Yahweh ci perdonerà se ci accontenteremo di quel poco che basta agli uomini per essere felici”.

(Praga, inverno del 1943)

Stencil

Sì Serisay, sono stato io a disegnare quella barca sulla porta di casa.
Era notte e tu dormivi su lenzuola leggere mentre io mi impegnavo a regalarti un’accoglienza fluo, per tutte le volte che saresti tornata a casa. Colori accesi, come quelli che ti piace indossare d’estate, mentre attraversi veloce la strada, perennemente in ritardo. Colori che colorano anche il buio, quello dell’ingresso del tuo appartamento, quando a notte fonda giri la chiave nella toppa senza sforzarti di cercare l’interruttore della luce.

Sì Serisay, mi piace immaginarti mentre compi i tuoi piccoli gesti  quotidiani. La tua espressione distratta, mentre con una mano metti la moka sul fuoco e con l’altra rispondi ad un sms. E ti vedo saltellare su un piede, mentre nel disordine della tua stanza cerchi una scarpa finita irrimediabilmente sotto il letto. Non ti so immaginare lontana dalla confusione. Sul pavimento del tuo soggiorno, ho sparpagliato tutti i cd che hai smesso di ascoltare e i libri già letti. E ti piace il rumore del phon, dei fogli accartocciati, dei piatti riposti nella credenza. E ti piace il mare e la sabbia calda sotto i piedi.

E se fuori il tempo non minacciasse tempesta, ti porterei sul molo a passeggiare. Conteremmo le barche all’orizzonte, seduti a fumare con i piedi penzoloni che sfiorano l’acqua. Dire che aspetteremo il tramonto, ma andarcene via prima che il sole cali perché il mare è lontano da casa. Allora perché non rendere tutto più semplice? Facciamo che lo zerbino davanti la porta non è zerbino. Facciamo che il mare è il tuo pianerottolo. Facciamo che io e te, dentro questo stencil a forma di barca, ci attraversiamo l’Oceano e ce ne andiamo via da qui.

Sì Serisay, lo sento che stai ridendo. Perché fa ridere questo gioco tra fantasia e rivelazione. Così come l’espressione della tua vicina, il giorno che ha trovato imbrattata la parete di casa sua fin oltre lo stipite della porta.

Ma tu, Serisay, non mi hai mai voluto portare a casa tua ed io non potevo sapere che vivessi giusto un piano sopra.

La fine di Orlando

Voleva andare a vivere con me, lui. Io ero un po’ scettica. Ma mi lasciai coccolare dalle sue fantasie sul nostro nido d’amore e alla fine mi piegai alla sua volontà. Lo seguivo devotamente per i negozi di arredamento, pensando a come sarebbe stato condividere quegli spazi che pian piano prendevano forma. Sarei diventata regina di un bivani di periferia arredato ad arte. Un mese dopo dall’acquisto della cucina e delle piastrelle del bagno, ci lasciammo. Un congedo doloroso, drammatico. Mi abbandonò così come mi aveva conquistata: con enfasi e platealità. E di quel castello in due stanze e servizi, non rimase che un cumulo di carte, crollate sotto il peso di motivazioni sovrumane.

Così la mia storia con Lui si aggiunse a un folto elenco di storie finite pressoché alla stessa maniera.  All’epoca soffrivo di una patologia che reputavo incurabile, la sindrome di Angelica. Tutti quelli di cui mi innamoravo io, una cosa avevano in comune: la tempra di Orlando Furioso. Come Madame Bovary, sembravo non provare altro piacere che stare accanto a uomini innamorati tanto da versare lacrime, per me,  che si promettevano pronti a starmi accanto fino a che i loro occhi non si fossero chiusi in balia del sonno eterno. E ognuno di loro si professava migliore di quello che era venuto subito prima. Io, totalmente ammaliata, pendevo letteralmente dalle loro labbra. Finché con il tempo, non cominciavano a spogliarsi della loro sfavillante armatura ed io cominciavo ad intravedere quello che ci stava sotto. Le loro insicurezze cosmiche, la loro anima balbuziente, dal passo zoppo e insicuro. Un’apparenza epica, offesa da un’interiorità in canottiera bianca, lercia di sugo.

Anche con Lui,si ripeteva il solito copione. Ma, stavolta, con una variante finale.  Fu il nostro ultimo incontro a darmi ispirazione. A casa sua, quella che avrebbe lasciato per stare con me. Fu lui che mi chiese di vederci, interpretando un ruolo troppo compassato per le sue corde. E tra un mea culpa e un monologo sulla difficile arte della vita del saper guardare avanti, i miei occhi caddero lì, dove mai erano stati fino ad allora.

Su una parete, in soggiorno, troneggiava un pupo siciliano in cappa e spada. Del viso si scorgevano a malapena gli occhi, tutto bardato com’era, pronto a dare battaglia. Lo vidi lì, fermo, appeso per il collo da quei fili senza i quali gli sarebbe stato impossibile muoversi.  A furia di guardarlo, cominciai a pensare che la voce che mi parlava fosse la sua e sue tutte le motivazioni del caso che giustificavano la nostra storia ferma a un capolinea. Non c’erano dubbi: il pupo mi parlava.

Farnetica qualche frase. Ma quando sono davanti a lui, non proferisce parola. Sul divano è rimasto solo il solco che ho lasciato. Quell’uomo di legno, a toccarlo, è freddo quanto la latta che lo riveste. Dall’altra parte del soggiorno, Lui sicuramente mi fissava, senza capire cosa stessi facendo. Io so solo che quel pupo, qualche istante dopo mi stava in mano. Lo rivoltavo come un giocattolo, finché dal perno sulla testa, non levai il ferro che teneva tutti i fili. Il pupo cadde a terra, in una posa sgraziata, con le gambe che andavano da tutte le parti. Guardai quell’omuncolo per un po’, poi dalle labbra non mi esplose una fragorosa risata. Erano anni che non ridevo così.

Primo amore.

Dopo essersi concessa a lui, Eva rimase a fissare chi, con lei, avrebbe dato vita alla progenie del mondo.  Lui la sovrastava, sudato e sporco, le pupille dilatate, i capelli arruffati. Fuori dal giardino, la sua nudità santa e perfetta, era carne, sangue e gemiti.  Le sembrava di poterlo vedere, adesso, nella sua vera essenza di uomo.

E, sebbene la natura animale avesse preso il sopravvento su quella divina, non ci furono imbarazzi tra quei corpi nudi.
Mentre ancora giaceva in lei, cominciò ad accarezzarle il ventre e a baciarle una spalla. Eva, con le dita della mano, toccò il suo costato, per  sentire il vuoto lasciato dalla sua presenza. Per aver me, hai dovuto ceder qualcosa di tuo, gli sussurrò a un orecchio e subito dopo prese a baciargli il viso e il collo, scendendo giù, fino all’altezza del cuore.

E tardava ad arrivare il pentimento. L’un dentro l’altra, giacevano lì, senza pensare a niente, che tutto doveva ancora venire.

Il dramma di un insonne.

Nemmeno quella notte, Raymond Coleman riuscì a prendere sonno. Le cose andavano avanti così da diverso tempo. Ore ed ore a rigirarsi nel letto, a cercare una posizione che lo confortasse, facendo attenzione a non svegliare Lilian, sua moglie da 40 anni.

Le aveva provate tutte, ma niente sembrava funzionare su di lui.
In fin dei conti, il vecchio Ray non sembrava preoccuparsene più di tanto. Lo prendeva come un dato di fatto: io non dormo mai.
Il ché non era totalmente vero. Riusciva raramente a prendere sonno, alle prime luci dell’alba – quando dormire non serve più-  ma appena il sole filtrava dalle tapparelle, i suoi occhi magicamente si aprivano, più svegli e pimpanti che mai.

Non ho idea di come accidenti faccia, lamentava spesso Lilian con mia moglie. Io e Ray eravamo vicini di casa da 12 anni, da quando con la mia famiglia ci trasferimmo nel Vermont dall’Ohio. Dopo l’ultima gravidanza, anche Evie ebbe diversi problemi con il sonno e credo che fu lei a consigliare a Lilian di rivolgersi a quel dottore che l’aveva fatta riconciliare con i suoi sogni. Il dottor Freak, per l’appunto, un tipo strambo con una laurea in psicologia che da qualche anno si improvvisava specialista dei problemi legati alla sfera onirica. Tu andavi da lui, gli raccontavi un po’ della tua vita e lui, dopo essersi informato a dovere, ti prescriveva cure che, a detta di tutti, avevano del miracoloso. Ma non poteva funzionare con Ray, lo sapevo benissimo. E’ sempre stato un tipo schivo lui, senza troppe pretese. Aveva messo su un grande salone di auto, lo conoscevano tutti per quello, e sua moglie era totalmente dedita alla casa e ai figli. Ne avevano due, lui e Lilian, ma Eddie, dopo il matrimonio, se n’era andato a vivere nel New Jersey mentre Jein, la più piccola, aveva scelto l’Europa. I figli vedevano i genitori raramente, giusto per le feste comandate e l’estate, di contro, Ray e Lilian si spostavano poco a causa della fobia di lei per gli aerei. Un’esistenza discreta, ordinaria insomma, senza colpi di testa o scandali di cui far parlare il vicinato per mesi. Sarà per questo che non riuscivo a immaginarmi Ray sdraiato sul lettino del dottor Freak. Ma dopo i racconti di mia moglie, Lilian quasi lo costrinse a prendere appuntamento e andare. Quello che poi Evie seppe da Lilian, mi diede ragione. In quello che di sè raccontò Ray, il dottor Freak – che io trovo essere una persona piuttosto invadente e con un pessimo senso dell’humor- non trovò nulla che potesse essere eletta causa della sua insonnia. E fu proprio per questa ragione che il dottor Freak, un tipo che raramente si da’ per vinto,  elesse Ray come cavia per una macchina del sonno di ultima generazione. Un aggeggio con decine di elettrodi che andavano applicati la sera, prima di mettersi a letto, e che avrebbero monitorato l’attività cerebrale del paziente. Vedrà, che risultato. Non seppimo mai a cosa alludeva il dottor Freak, visto che  il solo risultato appurato da Ray e Lilian fu che quella macchina non fece chiudere occhio a nessuno dei due, per il rumore infernale che faceva!

Io non vedo proprio dove stia il problema, gli disse una sera il suo fedele amico Roger.  Hai un bel po’ di anni sul groppone, i capelli bianchi e una pancia enorme. Cosa cazzo ti aspetti? Insonnia e prostata, sono questi i grandi mali che ci attanagliano e per entrambi c’è una sola soluzione: scopare. Scopare per tutta la notte se ce la fai, così non pensi alla prima e intanto ti massaggi lì dove ti fa male. La cura era di certo invitante, ma di contro credo che Lilian non fosse mai stata una che ci andasse giù pesante e Ray non era di certo il tipo da cercare altrove la soluzione al suo problema.

Fu qualche mese dopo l’esperimento del dottor Freak che ci ritrovammo a chiacchierare, io e Ray, in un’improbabile notte. Stavo fuori a fumare l’ultima sigaretta della giornata, seduto sugli scalini di casa quando vidi, dall’altra parte della strada, la porta di casa Coleman che si apriva. Nemmeno sta notte riesci a chiudere occhio, Ray? Gli feci segno di avvicinarsi e sedersi accanto a me, ci saremmo fatti un po’ di compagnia. Uscì in vestaglia, fuori l’aria era tiepida. Aveva con sé le sue sigarette, il suo unico vizio. Gliene accesi una e rimanemmo in silenzio per un po’. Fu lui a romperlo.

Sai Sam, le cose non sono sempre andate così. Sono uno che dormiva parecchio, soprattutto da giovane. Accidenti se dormivo! Ero capace di prendere sonno nei posti più improbabili. Dormivo tanto, ma sognavo poco. Voglio dire.. dormire e sognare non sono la stessa cosa giusto? Tu ricordi mai i sogni che hai fatto? Io per niente, e a dirla tutta, non credo di aver sognato granchè in quel periodo. Certo, avevo un gran bel da fare, non ti credere. Finivo il liceo, avevo una ragazza – che poi sarebbe diventata mia moglie- e quei gran figli di puttana dei Detroit Tigers, per la terza volta nella storia , la facevano franca contro i Saint Louis Cardinals nella MLB. E la mia vita era tutta lì, capisci? Il futuro, i giorni avvenire, erano una cosa così lontana che non ci pensavo nemmeno. Poi arriva il lavoro, riesci a mettere su qualcosa, hai una famiglia e ti senti un uomo davvero fortunato. L’uomo più fortunato d’America. Ma, lascia che te lo dica Sam, puoi avere anche un bel pratino inglese e una moglie che ti aspetta a casa preparandoti le torte, ma senza sogni…. vivi una vita a metà. Capisci cosa intendo Sam?

Capivo ma francamente non avevo la più pallida idea di cosa dire. Lo sfogo di Ray andava aldilà di ogni mia aspettativa di conversazione anche se, francamente, sono sempre stato convinto che quella sera il vecchio Raymond Coleman non stesse davvero parlando con me, ma piuttosto con se stesso. Era una sorta di auto-confessione di cui io ero solo un pretesto. Inevitabilmente, le sole cose che riuscì a dire io, furono di una banalità disarmante. Dai Ray, insomma… hai una gran bella famiglia, un lavoro, dei figli in gamba. Uno come te non può vivere di rimpianti.

Ray non disse niente, mi guardò- era la prima volta che mi guardava da quando si venne a sedere accanto a me- e mi sorrise, un sorriso sinceramente carico di gratitudine. Grazie per la compagnia Sam, aspirò per l’ultima volta la sua sigaretta, la spense e si alzò. Quando vuoi Ray, gli dissi io e ricambiai il suo sorriso. Non mi alzai, volevo rimanere ancora un pò seduto lì fuori. Continuai a seguirlo con lo sguardo, domandandomi se si fosse aspettato tutt’altra risposta da parte mia. Non volevo lasciarlo andare così, avrei voluto concludere il discorso con una frase migliore, così, mentre attraversava il vialetto di casa, lo chiamai. Ehi Ray… La sola cosa che riuscì a dire fu buonanotte!

Ray sorrise di nuovo. Speriamo Sam, mi disse, speriamo.


Un inverno molto piovoso.

Lo squillo del citofono era il segnale.
Bisognava essere veloci, attraversare il corridoio a perdifiato, entrare nella stanza al buio e accovacciarsi sotto il letto, silenziosamente. Tecniche rodate da anni.
Ormai non facevano più nemmeno la fatica di andarla a cercare, bisognava solo aspettare.
Se da lì a breve qualcuno fosse entrato in camera e avesse acceso la luce era solo per darle il via libera. 

Non lo trovava un nascondino divertente, ma necessario.
Ogni anno, da 8 anni sempre lo stesso gioco a cui lui pazientemente si prestava e puntualmente, da 8 anni, non ricevendo risposta, ripiegava sul portinaio che le avrebbe consegnato al posto suo, come ogni anno, il suo regalo di compleanno.

Le confezioni erano sempre appetibili, coloratissime e piene di fiori, eppure mai scartate.
Rimanevano intatte senza destare in lei la minima curiosità. Non faceva nemmeno la fatica di muoverle per capire cosa potessero mai contenere. Le guardava con diffidenza ritendendo molto più utile riciclarle all’amichetta di turno, al prossimo compleanno.

Quell’anno volle dargli una possibilità. La carta in cui era avvolto non era granchè, ma il regalo era voluminoso. Sottile ma voluminoso. Lo posò sul letto e si guardaronno a lungo, lei e il regalo, finchè non si decise. Pochi minuti dopo quello che le occupava metà letto si rivelò essere un aquilone.
Giallo, classica forma romboidale con una grande farfalla sopra. Nessuno le aveva mai regalato un aquilone, era una cosa inutile ma le piaceva l’idea di averne finalmente uno con cui giocare.

Corse in balcone, il vento soffiava leggero ed era ansiosa di veder spiccare il volo a quella gialla farfalla.
Lo lanciò, tenendo forte la cordicella tra le mani, ma l’aquilone non fece molta strada.
Rimase appeso tra il secondo e il primo piano, fissando il vuoto a testa in giù.

Il gatto, acciambellato sul davanzale della finestra, sbadigliò e riprese a dormire.
Lei guardava l’aquilone con pietà, come se la colpa fosse tutta di quel rombo giallo incapace di cogliere la corrente per volare. L’euforia del momento si spense e condannò l’aquilone alla fine che meritava: lasciata andare dalle mani la cordicella rossa per cui lo teneva, indifferente, lo guardò precipitare fino al cortile sotto casa e lì lo abbandono.

Fu un inverno molto piovoso.

Il pozzo di Molla Eid

Non giocate vicino al pozzo, ci potreste finire dentro.
Mamma Halima lo raccomandava sempre, quando ci sentiva uscire di casa e sapeva che saremmo andati a giocare lì vicino.
Per noi bambini di Molla Eid, il pozzo rappresenta un ritrovo. Molla Eid è un piccolo villaggio di 6 case, le nostre. Il pozzo a Molla Eid è la sola cosa che non sia una casa. Sta lì, a pochi passi da ciascuna porta, nessuno sa chi l’abbia costruito. Nessuno ci fa niente con il pozzo di Molla Eid. Non esistono corde abbastanza lunghe per calare i secchi e raccogliere acqua, sempre che ce ne sia, diceva mamma Halima. Ma l’acqua c’è, noi bambini di Molla Eid lo sappiamo. E’ stato Na’im a scoprirlo, un pomeriggio che non sapevamo a cosa giocare. Ha raccolto un sassolino da terra e lo ha lanciato aspettando poi, seduto sul bordo del pozzo, di sentire qualcosa. Contò fino a 120 poi, finalmente, udì un rumore. ‘Adel vieni presto, mi disse urlando, sempre lì seduto, c’è acqua nel pozzo senti?  Come Na’im, raccolsi un sassolino da terra, lo lanciai nel pozzo, mi sedetti sul bordo e contai, fino a 120. Era vero, c’era acqua lì sotto. La scoperta ci incuriosiva o forse ci confortava, perché, se era vero che giocando lì vicino correvamo il pericolo di finirci dentro, nella malaugurata ipotesi fosse successo, tutti noi sapevamo nuotare. La teoria secondo me e Na’im non faceva una piega, Mamma Halima però non sembrava granché confortata dalla notizia. E come risalireste eventualmente? la domanda ci lasciò interdetti, poi Feisal ci raggiunse con una  palla sottobraccio, io e Na’im corremmo a giocare e non pensammo più a come risalire dal pozzo. Feisal ha una sorella più piccola, Adila, che è tanto bella e so già che un giorno le chiederò di sposarmi. A lei non piace giocare con noi, rimane vicino al pozzo a coccolare le sue bambole. Adila da grande farà il medico.

Erano giorni spensierati i nostri, prima che arrivassero gli alieni.
Hanno navicelle che sembrano aerei, hanno caschi tondi e tute verdi. La loro lingua non si parla, si urla.
Non so bene come siano atterrati sulla Terra, ma una notte vedemmo tanto fumo e  tante luci accendersi laggiù verso Bagdad e strani aerei volare in cielo, poi papà Safy disse alla mamma non c’è più speranza, sono arrivati.

Fu Feisal a raccontarmi degli alieni, aveva letto di loro su un libro che gli aveva regalato suo zio. Sono di tante forme sai? mi disse, e se vogliono possono anche assumere sembianze terrestri, per non fare capire che sono alieni. Giorni dopo, chiesi a mio padre se avesse saputo da che pianeta provenivano, i nostri alieni. Papà mi disse che gli alieni erano Americani e che l’America non sta su un altro pianeta ma dall’altra parte del mondo. Chiesi a Feisal se era possibile che esistessero alieni dall’altra parte del mondo ma lui, fu molto onesto, e ammise che non lo sapeva perché il libro non lo aveva letto tutto, avendolo trovato ad un certo punto piuttosto noioso. Poi gli alieni, arrivarono fino a Molla Eid e fu dura capire che cosa volessero da noi. Entrarono in ognuna delle 6 case del nostro piccolo villaggio, misero sottosopra ogni cosa. Noi tutti stavamo fuori, l’un l’altro vicini, mentre uno di loro diceva Don’t worry!  We will give you freedom, peace. Zio Hashim, che parla la loro lingua ma non è un alieno,  non capiva perché dovessero mettere tutto per aria per portarci la pace e la libertà. Loro non glielo spiegarono, continuarono a metter confusione per ore. Mamma Halima era molto preoccupata, vedrai che seccatura rimetter tutto in ordine. Quando ebbero finito andarono via. Uno degli alieni, voltandosi a guardare Feisal e Adila, sorrise, poi tirò fuori dalla tasca qualcosa e la mise nelle mani di Feisal. Gomma americana, disse zio Hashim, e Feisal la gettò subito via, terrorizzato all’idea di diventare alieno anche lui.

A Molla Eid tutti sembravano piuttosto sconvolti dall’arrivo degli alieni, tanto che il problema non era più andare a giocare vicino al pozzo quanto star fuori casa. Mamma Halima mi proibì in tutti i modi di andare a giocare con i miei amici, anche loro d’altra parte, costretti a non varcare la porta di casa. Ma mamma ho otto anni, tutti i bambini di otto anni sono fuori a giocare. Mamma Halima non voleva sentire ragioni. Odiavo gli alieni, lo strano concetto di libertà al quale erano abituati. Vidi i miei amici raramente e sempre per poco tempo. Adesso, perfino fare quattro passi da porta a porta era pericoloso. La guerra è guerra, sentì dire una sera a zio Hashim, durante la cena, e non ci si può fidare di nessuno. La frase mi colpì seriamente e volli sapere da zio Hashim se almeno di lui ci si poteva fidare. Zio Hashim sorrise e disse che con lui non valeva la legge della guerra.
Intanto le stagioni si alternavano senza sosta, nemmeno per loro sembrava valere la legge della guerra. Prima arrivò l’estate, poi l’autunno, subito dopo l’inverno fino alla primavera. Dentro le mura di casa, non distinguevo più un giorno dall’altro e tutte le notti, prima di addormentarmi, pregavo Allah di convincere gli alieni a far ritorno nell’altra parte del mondo. Pregai tanto e a lungo, ma  con scarso successo. Niente sembrava far desistere gli alieni dal lasciarci in pace.  Pensavo al pozzo di Molla Eid, alle partite a pallone con Na’im e Feisal, pensavo ad Adila. Chissà se Adila era cresciuta in quei mesi. Mamma Halima dice che le femmine crescono più velocemente dei maschi. Chissà se, una volta finita la guerra, quando tutti saremmo tornati fuori a giocare, l’avrei riconosciuta. Chissà se l’avrei amata ancora, tanto da chiederle di sposarmi, un giorno, quando saremmo diventati abbastanza grandi entrambi. Più pensavo al mondo lì fuori, a tutte le cose che avrei voluto fare e non potevo, più cresceva dentro di me una rabbia e un odio smisurato nei confronti degli alieni americani. Finì con il rivolgere ad Allah preghiere cariche di rancore, augurandomi per loro le peggiori torture e sofferenze e, non so se fu Allah a voler punire la mia impudenza o furono piuttosto gli alieni a captare i miei vendicativi pensieri, fatto sta che qualcosa nelle mie preghiere andò storto e dovetti pentirmi per tutto il male covato dentro. Un venerdì di marzo, dopo giorni sereni che si sarebbe detto fosse finita la guerra, con due aerei, gli alieni americani volarono sulle povere case di Molla Eid, lanciandoci contro tutto ciò che di spaziale avessero. Durò qualche minuto, che a me sembrò lungo una vita, tutta quella che avevo vissuto fino ad allora. La casa tremava, papà Safy disse di non correr fuori, di metterci sotto i letti, di nasconderci. Zio Hashim mi stringeva a sè, mamma Halima pregava e urlava, invocando Allah e tante altre divinità di cui non conoscevo nemmeno il nome. Io tenevo gli occhi stretti stretti e i pugni chiusi e mi dicevo che non avrei aperto né gli uni né gli altri se prima non fosse finito tutto. Avevo paura che potesse succedere qualcosa a qualcuno, ma mi dicevo che una volta finito tutto, piuttosto che vedere i corpi dei miei esanimi a terra, sarei corso fuori, lontano lontano, e non sarei tornato più a Molla Eid.

Fortunatamente,quando tutto finì, riaprì gli occhi e ritrovai accanto a me mamma Halima, papà Safy e zio Hashim. Tutti interi, tutti vivi. La porta di casa si era aperta, i vetri delle finestre era tutti rotti. Quando fummo certi che gli aerei erano lontani, uscimmo per sapere se il villaggio di Molla Eid fosse tutto sopravvissuto. Fuori trovai Na’im e Feisal. Con loro c’era anche Adila, sempre così bella. Uguale a come l’avevo lasciata ma a me sembrava ancora più bella. Ci corremmo tutti incontro e ci abbracciamo, stretti stretti. Lo stesso fecero i vecchi davanti la porta. Poi, la sorpresa e lo sgomento. Fu Feisal il primo ad accorgersene, guardando verso il pozzo di Molla Eid. Ma dopo il bombardamento, del pozzo non rimaneva altro che cumuli di mattoni, crollati l’uno sull’altro, feriti dal fuoco nemico. Lì sotto, la palla di Feisal, lasciata lì dall’ultima volta che avevamo giocato. Nessuno disse niente, ma per tutti, grandi e bambini, fu istintivo avvicinarsi. Feisal rimase fermo immobile a guardare la sua palla imprigionata lì sotto. Fuori c’era la guerra, le nostre case malamente avevano retto all’attacco di cui nessuno aveva compreso il motivo, ma quando vidi le lacrime, prima lente poi simili a un fiume in piena, che rigavano il viso di Feisal, capì che non c’entravano niente la guerra, il bombardamento e gli alieni americani. E noi, come giocheremo adesso? disse Feisal con un filo di voce. Avevamo perso il nostro gioco più bello e chissà quanto sarebbe passato prima di poter avere un’altra palla con cui giocare, a Molla Eid. Un altro pozzo. Presto Feisal, trasmise la sua tristezza a ciascuno di noi. Ognuno aveva il suo motivo per piangere. Tranne Adila, la mia bellissima Adila. La guardavo, tra un singhiozzo e l’altro, aspettando di approfittare della sua commozione per poterla stringere a me e abbracciarla, ma sembrava indifferente a quello che stava accadendo. Si mise, attenta, a osservare il pozzo, inclinando la testa verso destra, sembrava lo sentisse parlare. Sembrava che il pozzo le stesse suggerendo qualcosa. Pochi istanti dopo , Adila si dirigeva fiera verso di lui e risalendo una dopo l’altra le pietre che lo coprivano, si mise a sedere su quella più alta. Sembrava una profetessa, la profetessa Adila. Noi tutti, lì sotto, aspettavamo un suo cenno, una sua parola e finalmente, la profetessa Adila parlò. Non dovete piangere, disse Adila, la palla di Feisal è qui sotto ma questo non vuol dire che non potremo fare altri giochi. Io vi metterò a disposizione le mie bambole e , se non vi piacciono, ognuno di voi potrà proporre un nuovo gioco da fare. Ci ritroveremo sempre qui, al nostro pozzo e, giorno dopo giorno, inventeremo qualcosa di nuovo e ne stabiliremo le regole. Sebbene nessuno di noi avrebbe accettato di giocare con le bambole di Adila, la proposta ci sembrò ragionevole. A turno, ogni giorno, ciascuno di noi sedeva sulla pietra più alta dell’antico pozzo e faceva la sua proposta. Se veniva accolta, si stabilivano le regole del nuovo gioco e poi si scrivevano per ricordarle quando ci avremmo nuovamente giocato.

Gli alieni, vennero ancora  a Molla Eid, ma senza lanciare bombe. It’s a control, dicevano e mettevano sottosopra il nostro piccolo villaggio di sei case, le nostre. Quando andavano via, ci osservavano, sembravano incuriositi dallo strano modo in cui determinavamo i nostri giochi. Noi però degli alieni ci curavamo poco, continuavamo a giocare, mentre loro si impegnavano a dare noi la libertà.

* Molla Eid è il nome di un villaggio della regione di Baquba, a nord di Baghdad dove nel marzo del 2006 furono trovati trenta corpi decapitati.

Un mercenario

Ormai era diventata una costante:a seconda del luogo in cui si trovava a vivere in un dato periodo della sua vita, allacciava rapporti viscerali con determinate persone, le “viveva” e poi, inspiegabilmente, se ne liberava.

Li chiamava “Rapporti Usa&Getta” e ciò risultava paradossale per una persona che non aveva mai avuto il coraggio di buttar via nulla. Maglioni, scarpe, vestiti, oggetti in genere, conservava tutto con cura maniacale. Persino gli scontrini fiscali, ne aveva una collezione intera.

Se l’occasione meritava di esser ricordata, annotava dietro ogni scontrino la data, il luogo, l’occasione e la persona con cui si trovava in quel momento. Che fossero il conto di un ristorante, un caffè preso in un autogrill piuttosto che un banalissimo acquisto, li conservava tutti, biglietti del cinema inclusi sui quali, con il tempo, ormai era difficile riuscire a leggere il titolo del film.
Lo stesso non valeva per le persone.

Avveniva sempre in maniera imprevedibile e il più delle volte non per sua iniziativa giacché la tecnica utilizzata e ormai collaudata negli anni era quella dell’Induzione per Sfinimento.
La decisione non veniva mai presa in maniera istintiva, era una consapevolezza che gradualmente si consolidava nella persona di turno finché non si frapponeva fra lui e loro in maniera irreversibile.
Durante il periodo di una relazione, di qualsiasi natura fosse, preparava la persona alla possibilità di una frattura tra loro che appariva inevitabile, una volta provata ai limiti delle possibilità umane la loro Pazienza. Anche per questo fuggiva le persone Impulsive, non sarebbero state all’altezza della situazione.

Il tutto non si verificava in maniera asettica e scevra di sofferenza.
Viveva con il massimo della Compartecipazione il dolore che implicavano simili traumi, fino al totale annullamento, fino alla totale disperazione. Una punizione necessaria, per questo malcelato Egoismo, per la trascuratezza con cui irrompeva nella vita di una persona, la depredava e saccheggiava di tutto ciò che poteva offrirle finché, non rimanendo più nulla da prendere, la mortificava, maltrattandola, senza pietà. Questo dava a quella persona la forza di ribellarsi a lui, di scacciarlo via da quel sacro posto usurpato, e a lui il movente per rivolgersi verso altre conquiste.

Un mercenario, schierato a combattere la sua battaglia personale.
Contro la Fragilità delle relazioni umane, il senso di Abbandono che si trascinava dietro da anni.
Delle cose, quando era possibile, preferiva conoscerne l’Inizio e la Fine, così da non farsi trovare totalmente impreparato. Preferiva Prevenire onde evitare di dover soffrire maggiormente poi. E il dolore per il Distacco, la Rottura, lo viveva fino all’ultima lacrima, senza sconti, ma il viverlo in maniera consapevole lo illudeva che potesse essere minore il tempo impiegato a Dimenticare.

Raramente se ne pentiva. Se accadeva, giocava il tutto per tutto nella speranza di poter recuperare, ma non funzionava quasi mai, difficile in pochi minuti mettere in discussione certezze consolidate nel corso di mesi, anni, e da lui stesso alimentate. Allora il Dolore assumeva una dimensione differente, in un certo modo meditativa, il cui fine non era tanto Dimenticare quanto Giustificare, dar ragione dell’accaduto per perfezionare la tecnica. In un “mestiere” così difficile non c’era spazio per i ripensamenti. Mirare e Sparare, roba da cecchini professionisti.

Era una responsabilità, la conseguenza di un’atavica colpa che pesava sulle sue spalle da sempre, da ancora prima che lui ci fosse. E non poteva esimersi da questo compito, nonostante tutto il male, nonostante il primo a pagarne amaramente le conseguenze fosse lui. Sarebbe stato sempre così, finché non fosse rimasto nessuno in cui annullarsi, da annullare. In fondo, un sadico, estremo atto d’amore, che concentrava in un breve lasso di tempo una vastità di sensazioni ed emozioni che comunemente le persone preferiscono centellinare nel tempo per non dirsi mai totalmente sazi dell’Altro.

Ora il pensiero di alcune persone ritornava imponente, risaliva dal cuore alla mente come fumo che si leva da una tazza di caffè. Era l’ennesimo trasferimento, l’ennesimo trasloco. Quando doveva ambientarsi in un posto totalmente nuovo preferiva partire dai Ricordi, sapere che prima di quello che stava vivendo c’era stato dell’altro. Questo gli dava conforto, un punto di partenza su cui poter cominciare a costruire e la speranza che, se non fossero state migliori , le cose poteva comunque essere Diverse. Allora riusciva a guardare quasi con fiducia le persone che sedevano nei tavoli intorno al suo, di cui non sapeva nulla e la sola cosa che poteva leggere sui loro volti erano intere pagine di inediti racconti.

E sarà che in posti come quello le solitudini individuali si ritrovano inspiegabilmente nella confusione collettiva, o semplicemente il libro abbandonato sul tavolo prima di perdersi nella trafila di ricordi. Qualsiasi cosa fosse, diede il coraggio e il pretesto a quel ragazzo, in quel momento solo quanto lui, seduto a pochi tavoli più in là, di chiedergli se poteva sedersi al suo stesso tavolo.
Parlarono, di tantissime cose. Le premesse erano ottime, bisognava solo prendere la mira e poi…