Pensavo fosse rabbia e invece era “Gelato al cioccolato”.

Avete presente quelle situazioni di panico lì, dove due fidanzati trasformano una constatazione amichevole in una partita a Call of Duty? Quelle situazioni lì, al confine tra l’omicidio premeditato e l’isteria pazza? Ecco, io ho avuto un fidanzato – diversi fidanzati fa – che amavo alla follia e per noi questi momenti qui funzionavano un po’ da amalgama per la nostra relazione di coppia. Ora, non che io abbia mai avuto relazioni serene con il genere umano, ma finché riuscivamo a raggiungere comunque la pace estatica dei sensi, io sapevo che non lo avrei mai lasciato.

Le cose presero una piega inaspettata il giorno in cui tutto questo manicomio diventò routine e accadde una cosa che ad oggi io reputo inspiegabile. Perché una volta, una delle tante, in cui lui era lì lì per mollarmi e io dovevo fare di tutto per non farlo andare via, la rabbia che covavo dentro si mutò in qualcosa di inaspettato, che nella mia testa prese le sembianze di Pupo e mi parlava attraverso i versi di Gelato al cioccolato, che in quel momento mi resi conto erano perfettamente in sincrono con la discussione appena avviata!

(pa papapa parapa papapara)

– LO SAI COSA DOVREI FARE ADESSO? DOVREI MOLLARTI QUI E ANDARE VIA!
(“ma dove vuoi andare ti amo, papparapa”)

– MI STA SFIANCANDO QUESTA SITUAZIONE!
(“ti annoi va bene balliamo, papparapa”)

– MI FAI CAPIRE COSA CAZZO TI STA PASSANDO PER LA TESTA???????
(“gelato al cioccolato dolce e un po’ salato tu gelato al cioccolato, papparapa)

E questa situazione qui si presentava tutte le volte in cui, per una ragione o per un’altra, avevamo qualcosa di cui discutere.

LITIGIO – FASE DI ROTTURA – PUPO.
LITIGIO – FASE DI ROTTURA – PUPO.

Io vivevo la cosa con sommo imbarazzo e in quegli istanti ero sempre combattuta tra il dire cosa stessi pensando realmente o tramutare tutto in una crisi abbastanza convincente di pianto. E ora, sinceramente, chi di voi avrebbe mai il coraggio di dire ad un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, che fa caldo ma qui si sta meglio, la sabbia è più bianca stasera ma dimmi che sei proprio vera?

Siccome riuscivo a riprendermi sempre in maniera piuttosto elegante, la nostra relazione andò avanti ancora per un po’ fino alla sera in cui toccammo il punto di non ritorno, io entrai nella sua auto e lui guidò a 180 in autostrada per riaccompagnarmi a casa. Lungo tutto il tragitto lui non parlò e io non pensavo a niente. Quando arrivammo sotto casa mia, spense la macchina e mi fece una domanda che in quel momento rappresentava La domanda:

– Hai qualcosa da dire?

Io ero piuttosto commossa perché per la prima volta Malgioglio (autore del testo della canzone) non aveva abbrutito le mie sinapsi e sapevo che se mi fossi concentrata un tantino avrei trovato quella frase ad effetto con cui non mandare tutto a puttane. Ma non arrivava. Aspetta forse… No, niente. Vuoto che manco la città in pieno Ferragosto. Allora lui senza girarsi, stringendo fortissimo le mani sul volante dell’auto, mi chiese:

– C’è qualcosa di tuo che hai lasciato a casa mia e vuoi riavere?

Fuori era tutto buoi e c’era freddo, io aprì lo sportello della macchina e volevo piangere, ma preferì andare via senza dir nulla perché la valigia sul letto, quella di un lungo viaggio la trovavo proprio una risposta fuori luogo.

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? S’è capito chi deve deciderlo?

Io vi devo confessare una cosa che quando l’hanno detta a me ci sono rimasta così male che ancora devo riprendermi. Questa cosa qui si chiama era di acquario, ci siamo entrati il 21 dicembre e non ne usciremo prima dei prossimi tremila anni. Un’era di cambiamenti profondi e inimmaginabili, ciò nonostante saremo soggetti a una depressione fredda, ovvero la perdita della capacità di provare emozioni. La nostra sensibilità diminuirà, ci sentiremo estranei e reagiremo in maniera molto blanda agli effetti esterni. Ci sentiremo stanchi e schiacciati dal peso della gravità, ci faremo così schifo la sera guardandoci allo specchio che la mattina dopo eviteremo direttamente di svegliarci. Perlomeno si assisterà ad una democratizzazione delle occhiaie e delle borse sotto gli occhi.

Quello che sta avvenendo in Italia è la prova che quanto detto non sono semplici speculazioni New Age. A profetizzare l’era di acquario – insieme ai movimenti hippie e all’esoterismo – è stato lo stesso Piero Fassino, prevedendo il nascere di un movimento politico nato dal basso, primo partito in Italia, guidato da un comico di professione e non da un comico che fa il politico. La parola si è fatta verbo e tutto si è compiuto come da vaticinio. E se non bastasse, a conclamare il bordello ancestrale nel quale ci siamo cacciati ci pensano tv e giornali, che ogni sacrosanta ora del giorno e della notte, ci mettono difronte a un dubbio che Amleto in confronto era uno con le idee chiare: cosa farà Grillo?

Grillo è l’elemento y che si inserisce in un sistema x e siccome nessuno sa come si comporta y in x, si entra nel panico. Ché poi, a dirla tutta, y l’ha detto chiaro e tondo come vuole comportarsi nel sistema x – l’ha detto così tante volte che, se volete, ve lo decanto pure io in dolce stil novo – ma a x la risposta non piace. X vuole una risposta x, mica una risposta y e giù il caos. Era di acquario: non si scappa. Così, siccome la risposta y non soddisfa, tutti sono chiamati a capire se Grillo cederà a una risposta x. Il tema cosa farà Grillo? tiene così in tensione il Paese che orde di opinionisti tv sono chiamati a rispondere, cercando di “icsizzare” il pensiero y, rendendolo politically correct. Ad esprimersi sull’argomento chiamano proprio tutti, inclusa la signora Maria che abita due porte dopo la mia. “Ma io volevo far parte del pubblico di Benedetta Parodi” “No, serve un opinionista tv a Coffe Break. Dobbiamo capire cosa farà Grillo”.

Siamo attorniati da così tanti programmi di approfondimento politico che stiamo rimpiangendo la campagna elettorale. Quasi lo preferisci Berlusconi su Rai3 a parlare di condono tombale, almeno puoi illuderti che stia già pianificando la sua vita nell’aldilà. Invece quelli lì li abbiamo già votati e non possiamo manco tornare indietro, che Napolitano è nel suo semestre bianco e non puo’ far nulla. Qualcuno gli ha suggerito di farsi venire la congiuntivite sebbene c’è chi, per rinnovargli il mandato, è pronto a sequestrarlo in Quirinale con la moglie. Voleva rimanere in Germania, ma gli hanno detto che c’abbiamo due clown e lui s’è sentito offeso perché di Moira Orfei ha gli stessi anni ma non la stessa capigliatura.

Così, a prendere in mano la situazione ci provano gli intellettuali. Loro non si chiedono cosa farà Grillo, loro invitano il diretto interessato a fare qualcosa, a farla con il PD e per il bene del Paese. Prima di lanciare l’accorato appello dalle pagine de L’Espresso (o era Repubblica?) si sono confrontati con il leader del Partito Democratico. Hanno chiesto a Bersani cosa intendesse fare – prima si sono accertati che Bersani fosse ancora il leader del Partito Democratico – e vista la sua confusione (è in stato confusionale da quando sa di aver perso pur essendo arrivato primo) hanno compreso che bisognava agire, perché anche al PD aspettano ancora di capire cosa intenda fare Grillo. A Berlusconi non guarda nessuno, anche perché lui non riuscirebbe a ricambiare lo sguardo. Ha la congiuntivite, l’ha rubata a Napolitano, tanto a lui non serviva.

E’ l’era di acquario e quella non perdona.
E noi? Sono 13 giorni che ci dicono qualcosa sta cambiando. I primi giorni c’abbiamo creduto, poi s’è verificato l’effetto Titanic: abbiamo beccato in pieno l’iceberg, non s’è capito se le scialuppe basteranno per tutti e intanto l’orchestra continua a suonare. Depressione fredda, è il prossimo passo. Ci sentiremo estranei a tutto, guarderemo il tg con la stesso fastidio con cui senti il campanello di casa suonare alle 8:00 della domenica mattina, quando non aspetti nessuno e siccome non rispondi, il campanello suona due volte (e di domenica stai certo che non è il postino). Allora proveremo a incazzarci con qualcuno ma non ne c’avremo più voglia che ormai ce la siamo presa con tutti – ma proprio tutti – e ancora nessuno avrà capito che cosa farà Grillo. Diventeremo socratici, aristotelici anche, attenendoci al detto secondo cui se hai un problema e la rispettiva soluzione, è inutile preoccuparsi e se hai un problema e nessuna soluzione, allora mettiti l’anima in pace che tanto non ci sta niente da fare. Ci hanno promesso la rivoluzione, ma si sono dimenticati di dirci come si fa.

E se tredici giorni di confusione legislativa vi sembrano troppi, ricordatevi che l’era d’acquario durerà tremila anni. La buona notizia è che Grillo non camperà così a lungo, la notizia cattiva è che nel frattempo l’era d’acquario avrà fatto fuori pure noi.

L’elettore di sinistra, ovvero sintomatologia del malessere da campagna elettorale.

Io sono un’elettrice di sinistra, critica e insoddisfatta. Una di quelle a cui è rimasta l’emozione dell’aver virato a manca, trovandoci dentro un guazzabuglio informe di idee e progetti che di quell’emozione hanno solo una pallida eco. Perché tutti noi diventiamo di sinistra per un’emozione (cit), solo che poi l’emozione diventa turbamento e tu rimani a sinistra un po’ per abitudine e un po’ per qualcosa che sembra coerenza ma che somiglia di più alla sindrome di Peter Pan. Perché l’elettore di sinistra è uno che non sa crescere, trascinandosi dietro quel senso di inferiorità tipico delle minoranze. Io ho fatto parte della minoranza sin dal liceo, in classe stavamo 8 a 12 e la mia scuola era più nera della pece. Anche in famiglia sono stata una minoranza in un covo di centristi cattolici e quando annunciai di essere atea e di sinistra, ricordo che mia nonna cominciò ad aspergermi con l’acqua benedetta.

Eppure in questo ghetto della minoranza, l’elettore di sinistra si sente al sicuro. Nessuno di noi è pienamente soddisfatto, ma questo mal comune è un mezzo gaudio che ci rende tutti delusi e inappagati alla stessa maniera. E’ una delle forme di democrazia più alta del consociativismo umano. Prima ancora delle primarie, la sinistra ha inventato la tristezza dell’esser di sinistra e ci ha resi tutti uguali. Tanti piccoli Evair immersi nella nebbia del bergamasco, che rimpiangono São Paulo do Brazil. Una saudade eternamente rinnovata, che tocca l’apice durante la campagna elettorale. Perché quello che in campagna elettorale la sinistra italiana chiede oggi al suo elettore non è una semplice adesione, una rinnovata fiducia, ma un vero e proprio atto di fede. In campagna elettorale la sinistra sa farsi una e trina, toccando picchi celestiali di ubiquità divina.

La sinistra é a sinistra, ma anche al centro e in ogni dove. È tutto un proliferare di nomi e di simboli e noi, elettori, che siamo uni e basta, non sappiamo che fare, chi scegliere, schiacciati da questa grandezza. Se prima ci sentivamo impotenti e soli, in campagna elettorale noi di sinistra ci sentiamo impotenti e confusi. Siamo tutti dalla stessa parte, ma siamo tutti diversi e allora vorremmo capire chi é fuori posto e finisce che gli unici a sentirsi fuori posto siamo noi. E mentre i dirigenti di partito pensano a possibili alleanze post-elettorali, ti chiedi perché non pensiamo ad allearci prima tra di noi. Guarda com’è bravo Grillo a riempire le piazze. Noi, uniti, non faremmo invidia a nessuno. Ognuno porta i suoi e a tener banco ci si alterna. Perché condannarci senza sconto a una sindrome bipolare senza soluzione di continuità?

Eppure il nostro impegno andrebbe premiato, ché sarebbe ben più semplice rimpolpare l’elettorato altrui, salir sul carro del vincitore, strizzare l’occhio ai populismi e alle liste civiche, anziché ancorarci alla speranza del nostro credo politico. Diventiamo di sinistra per un’emozione, dicevo. E anche un po’ per masochismo, ma soprattutto per nostalgia. Nostalgia di quel volo di gabbiano cui accennava Gaber in Qualcuno era comunista. Diceva: Era come due persone in unaDa una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Che poi, anche lui aveva capito che è stato più lungo il planare verso terra che il rimanere in aria. Fatto sta che anche oggi, l’elettore di sinistra è destinato a sentirsi un po’ gabbiano e un po’ coglione. Anche sopra il 40% di preferenze, rimaniamo una minoranza. Tante solitudini in una.

Siamo destinati a diventare specie protetta, col vantaggio che avremo un solo simbolo a rappresentarci. Quello del WWF.

Fenomenologia del Capodanno (e del perché, in fondo, io schifo pure quello)

Le idiosincrasie da feste comandate meriterebbero uno studio serio e attento, tenendo conto del fatto che esse possono nascere già in tenera età e hanno tutto il tempo di maturare nel corso dell’adolescenza e ancora dopo. Il 27 dicembre di ogni anno, tiri un sospiro di sollievo pensando che il peggio è passato ma al peggio non c’è mai fine ed è allora che realizzi l’arrivo imminente del Capodanno.

Lo sai da 365 giorni (366 se bisestile) che Capodanno cade di dicembre ed è 31, ma è un pensiero che ti togli dalla testa già il giorno dopo per ricordatene solo il giorno prima dell’anno successivo. E la ragione è evidente: un giorno come il Capodanno lo vuoi dimenticare subito.

In primis organizzatori di eventi e affini hanno reso senza dubbio difficile fare un distinguo tra Ferragosto e Capodanno, difficoltà annualmente rinnovata e resa evidente dalle grandi catene di abbigliamento che propongono per la seconda ricorrenza lo stesso abbigliamento che per la prima, costringendo te a migrare in Australia per dare senso al tuo acquisto. E poi, l’amletico dubbio, a cui generazioni di filosofi hanno provato a dare risposta: chi siamo? Da dove veniamo? Cosa facciamo a Capodanno? 

Non lo sa! A questa risposta l’italiano medio fa spallucce, si sente braccato nella morsa dell’indecisione. E per non sentirsi solo, coinvolge il resto del mondo in una panteistica rottura di coglioni, sicché almeno fino alla notte del 30 dicembre, tutti quanti, in una corale unità d’intenti e sentimento, stiamo a domandarci cosa faremo a Capodanno. Questo ci rende uniti e al contempo fragili, correndo il rischio di venire trascinati, in balia degli eventi, alla festa sbagliata con gente che non conoscevi fino a due minuti prima di sederti a tavola e che comunque – perché altrimenti sembra brutto – abbraccerai con ardore allo scoccare della mezzanotte, come se foste compagni da una vita.

Per tenere la barra dritta e non perdere di vista l’obiettivo, è necessario trovare l’amico che scelga per tutti, colui a cui toccherà il compito di proporre la stessa cosa dell’anno precedente facendo da parafulmine ai malumori generali, pur sapendo che è l’unica via d’uscita, giacché tra un po’ anche il Capodanno è passato e toccherà organizzare la Pasquetta. Ché poi in fondo non ti dispiace nemmeno. Di certo è sempre meglio che passare il Capodanno chiusa in macchina nel parcheggio di un locale, una mano sulla sua fronte, la sua testa fuori dal finestrino, e il cenone di capodanno che risale su accompagnato da un discreto numero di cocktail. Ma questa è un’altra storia, che durò poco, nonostante le promesse romantiche tra un conato e l’altro.

Fenomenologia del Natale (e del perché, qui, si preferisca il Capodanno).

Se pensate che tutto si sia concluso con la caduta del muro nell’89, vi invito a riflettere sul fatto che tutt’ora, nel mondo, vi è una guerra fredda eternamente rinnovata, che vede da un lato coloro che il Natale lo amano, lo attendono, e coloro che lo schifano proprio tanto che il count-down per l’anno nuovo cominciano a farlo già dall’8 dicembre, quando abeti rivestiti in poliuretano fanno bella mostra di sé in salotto, addobbati con tutto quanto sia possibile appendervi sopra. Una volta noi, lo usammo persino come appendi abiti giacché eravamo a corto di sedie e non avevamo più dove poggiare i cappotti e nessuno, comunque, voleva sedersi sull’albero.

La mia famiglia è l’esempio lampante di come il Natale possa essere causa e pretesto di veri e proprio drammi familiari, insidioso quasi quanto il dito tra moglie e marito. I contrasti più forti avvengono nella particella familiare originaria, quella costituita da me e mia madre. Entrambe schifiamo il Natale come i gatti schifano l’acqua, entrambe detestiamo questo buonismo innevato, questa melliflua serenità tuttavia mia madre ci prova, ogni anno, ad approcciarsi con diplomazia alla festa, tentando di prenderla con il piede giusto: addobbando l’albero, riscaldando la casa con fiocchi rossi, incartando regali. Io ho un approccio più sfacciato e pratico: non me ne frega niente, i regali li faccio perché vi rendono felici, ma se posso scegliere, preferisco andare a letto presto anzi non svegliarmi proprio, fino almeno al 27 dicembre. Questa distanza di vedute, ha innescato negli anni un gioco psicologico illogico e fortemente distruttivo per cui io, per farle piacere, nonostante preferirei dedicarmi a una retrospettiva con proiezione no-stop di tutta la filmografia di Kieślowski, mi prodigo affinché lo spirito del Natale si incarni in me, compenetrandomi così tanto nella cosa da sentirmi al contempo Gesù Bambino, la Madonna, San Giuseppe, il bue e l’asinello, ma è proprio ciò che fa incazzare mia madre come poche altre cose al mondo. E la tradizione vuole che ogni Natale si litighi, per cose di cui a nessuna delle due frega una mazza nei 364 giorni restanti ma che a Natale assumono un valore mai avuto prima. Ricordo ancora storie di vestiti messi una volta e mai più usati per cui, tuttavia, senti un’attrazione fatale il 24 Dicembre e che non trovi più e la colpa bisognerà pur darla a qualcuno; l’errore letale nella preparazione di un tiramisù che ha aperto scenari sull’irresponsabilità cosmica della gioventù di oggi; il disordine, che è sempre lo stesso, ma che a Natale cresce in maniera esponenziale e dove stanno 3 cose, improvvisamente, quelle diventano 10, 20, 333 mila ed è subito il caos e giù prediche atte a confutare in maniera definitiva che la leggerezza dell’essere no, non è insostenibile come diceva Kundera e che lui nonostante tutto è ancora vivo e noi, invece, di questo passo, dove finiremo?

Questo obbligo di esser buone a Natale, almeno a Natale, ci logora e distrugge. Questa sfida aperta a chi è più brava delle due a mantenere il proposito, puntando il dito contro l’altra se si è venute meno all’obbligo, si rinnova con regolare ciclicità ché anche a voler far finta di niente, a voler dire che il Natale non esiste, a ricordarci che il Natale è vivo e lotta insieme a noi, provvedono le chiamate dei parenti, gli inviti a pranzo o a cena, i regali che santocielo! non me ne voglia nessuno ma non puoi regalarmi le stesse cose da un quarto di secolo che c’ho più pigiami io della Regina d’Inghilterra e no, non è sul pile che posso fondare un solido rapporto di coppia.

Anche adesso, scrivo barricata in un anfratto buio e recondito di casa mia, che è 25 già da quasi 12 ore e qui non si fanno eccezioni alla regola. Ho capito che la situazione stava prendendo una brutta piega quando, dal piano di sopra, ho sentito lo squillo del telefono accompagnato da una sedia che strisciava minacciosa sul pavimento. Ma non temete, tra poco più di 12 ore sarà tutto finito. Buon Natale!

Le primarie

A metà strada dalla sezione del PD a me più prossima, ho sentito il bisogno di accostare la macchina. Ho tirato il freno a mano, ho stretto le mani sul volante e ho ripassato tutti i nomi dei candidati alle primarie. Su cinque, due non mi dicevano assolutamente niente che prima d’ora non li avevo neanche sentiti nominare. Ne rimanevano tre, ma ho pensato che di questi uno tanto di sinistra non si poteva considerare, quindi mi sono ritrovata con due nomi tra cui dover scegliere. “Pensa a chi è più leader, pensa a chi è più leader”. Allora ho cercato di capire chi, tra i due, potesse avere quel carisma necessario a tenere unita la sinistra italiana, a guidare il partito alle prossime elezioni e, cosa ben più importante, a far sì che il governo che verrà sia in grado di risollevare il Paese. Quindi non ho avuto altra scelta che tornare a casa, perché se avessi messo piede in quella sezione del PD, avrei fatto come minimo una carneficina.

Non ho l’età. Essay nichilista sulla gioventù, che non parla d’amore.

Cara Gigliola,
nemmeno io ho l’età. E non è solo un fatto d’amore.

Discorrendo del più e del meno – non so cosa ve lo lasci credere – riesco sempre ad illudervi di avere anni di saggezza ed esperienza maturati alle spalle. Finché nulla è anagraficamente stimato, mi chiedereste di sollevarvi il mondo e mi offrireste anche la leva. Poi, arriva quel momento, quello per cui i veli cadono, dove non ci si può più mascherare dietro un paio di lenti un po’ più appariscenti, e l’apparenza viene necessariamente messa alla porta.

“Ma perché, tu quanti anni hai?” mi chiedete con garbo, perché eventualmente non vi va di fare la solita gaffe di sapermi più vecchia di quanto crediate. Ed io, che penso anche di scontarvi un po’ di sana soggezione, ve lo dico serenamente, con il sorriso sulle labbra, che a breve andrò a compiere 24 anni.
“Sì, giuro, 24.”
“Solamente?”

Eh, come se comunque non cominciassero già a pesare un po’.

“Macché, tu sei ancora giovane. Sei una ragazzina”.
Qualcuno, i più audaci, hanno azzardato persino un “piccolissima” che, vi assicuro sebbene non vada più sù del metro e sessantacinque, di certo non poteva riferirsi all’altezza.

Quando una persona giovane dimostra di avere testa e spirito, è finita. La leva con cui avresti sollevato il mondo se la tengono stretta al braccio per sorreggersi, per attutire bene il colpo perché “tu, non può essere, ma figurati, chissà quante ne hai ancora da vedere…“.

Il senso di disagio verso i miei anni lo subisco dalle scuole medie. Con la scusa di essere nata a Gennaio, mi dicevo sempre più grande di un anno, perché sapevo che la cosa mi accreditava agli occhi degli altri. Mia cugina odiava crescere, esser maledettamente costretta a diventare grande, e si domandava perché io avessi questa fretta.

Perché sennò non ti da retta nessuno“.

Così, quando io a 14 anni cominciavo ad avere i primi conflitti generazionali con mia madre, le dicevo che lei non poteva pensare di monopolizzare la mia vita ancora per molto e che comunque “a breve” io avrei fatto “DICIOTTOANNI!!! Ti è chiaro o no?” Ovvio che no, in mezzo c’erano quattro anni e una lunga adolescenza.

I diciotto. Ero convinta che, superati quegli anni, non avrei più dovuto dimostrare niente a nessuno. E invece. Non aver rifatto nemmeno una volta la patente fa ridere. E se parlo di una me più giovane, è inevitabile sentire un’eco che, di rimando, mi dice “ti riferisci praticamente all’altro ieri.”

Sì mi riferisco all’altro ieri. Quando il muro di Berlino cadeva, io cominciavo a parlare e voi già andavate in motorino a prendere la fidanzata. Quando la tv minacciava il Millenium Bug, voi avevate già dato il vostro primo bacio, andavate al liceo e io dovevo ancora finire le medie. Quando voi cominciavate l’Università e io volevo fare l’archeologa, poi l’avvocato, poi la giornalista, poi il magistrato antimafia, poi la peace keeper e prendevo il mio primo 4 nella versione di greco.

Eppure certa sommessa nostalgia riesco a scorgerla, tra la sorpresa e l’offesa. Perché è mortificante non riuscire mai ad essere risorsa senza una decina in più. Certo entusiasmo e voglia di fare dovrebbero esser preservati dall’incuria del tempo, bisognerebbe dar loro fiducia. E invece no. Semplicemente arriverà il momento in cui l’età non sarà più una cosa da nascondere, perché sarà il volto stesso a tradirla. Un volto rassicurante, segnato dall’esperienza e dalla vita, che nient’altro ha da aspettarsi,  più di quello che ha già visto. Allora sarà più facile condividere le disillusioni e i malumori che l’avanzare del tempo regala. Non sarà più importante quel passato in cui non ci ritroviamo. Ci sentiremo più vicini in un presente che non cerca futuro. E poi, tutti insieme staremo a lamentarci della vita con la stessa svogliatezza del quindicenne che mal volentieri tiene la testa sui libri e pensa che da qualche altra parte – in qualche altro momento- ci sarebbe stato qualcosa di meglio ad attenderlo.

 

Quella cosa lì, quasi alla fine del mondo.

Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.
(Paul Valéry)

 

C’era una cosa che mi piaceva sentirmi chiedere, quando ero bambina.
Cosa vuoi fare da grande?
La domanda mi inorgogliva molto, perché io a differenza degli altri bambini ero convinta di sapere perfettamente cosa avrei fatto da grande. Era stata una decisione ponderata, la mia. Quasi un’illuminazione. Io sarei diventata un’archeologa. Lo decisi la sera in cui mia madre mi portò nell’antica Acropoli per una manifestazione culturale. Avevo otto anni. Da allora, tutte le mie scelte furono tese alla realizzazione del sogno. Quando in terza media le maestre chiesero a ciascuno di noi che scuola secondaria superiore avremmo scelto, io dissi “farò il liceo classico. Devo imparare il greco, io. Per diventare archeologa”.

Ero piccola, fragile e timida. Ma inspiegabilmente convinta del fatto mio.
I miei sogni andavano al di là della semplice previsione o delle semplici speranze. Erano qualcosa che stava lì, quasi alla fine del mondo. Irraggiungibile ma probabile.

L’infanzia instillava un senso di fiducia nel futuro innaturale e audace. Sembrava quasi che certe cose bastasse pensarle per ottenerle, che bastasse crederci per trovarmi già a metà dell’opera. E non contava tanto quello che facevo all’ora, lo reputavo piuttosto necessario per arrivare, passo dopo passo, a quello che volevo essere. Era fretta di crescere e ansia di vivere.

E poi, non ricordo com’è che l’hic et nunc soppiantò il futuro. Di punto in bianco, smisi di pensare a quello che sarei stata, perché incapace di sapere cosa farne di quella che ero. Cominciai a fare pensieri al presente indicativo, non più al futuro prossimo. E abbandonai il mio sogno, soppiantato da altri. Per lo più irrealizzati.

Non basta più desiderare così tanto una cosa per sentirla reale.
E’ ancora tutto lì. Quasi alla fine del mondo.

Tu chiamale se vuoi.. dilapidazioni.

 

Stamani, in un impeto di generosità verso me stessa, mi sono lasciata tentare da un’offerta su groupon. Diciannove euro netti, per 150 minuti di piacere in un percorso SPA. Non me la sono sentita di rinunciare.
Mentre attraverso lo spazio fisico che mi divide dalla mia borsa e dal portafogli che ci sta dentro, sento mia madre di là in cucina accendere la tv.

Rassegna stampa. Manovra. Pensioni. Crisi. Ecatombe.
No – mi dico- non devo lasciarmi sviare.
Proseguo nella mia marcia, non do retta a nessuno, nemmeno al gatto spalmato sul pavimento che tenta malamente di bloccarmi. Apro la borsa, tiro fuori il mio portafogli. Lo apro. Estraggo la mia prepagata. Sono decisa. Con la stessa determinazione, devo tornare al pc e acquistare il deal che mi darà l’accesso al mio Paradiso a tempo determinato. Nel tragitto opposto, a barricarmi la strada è mia madre. Mi guarda, la tazzina del caffé in mano la sorseggia come farebbe un cow boy con un whisky d’annata.

Cosa credi di fare?
Mamma – le spiego – lo so che hai una figlia che fa un lavoro che non le fa guadagnare una mazza e che non è nemmeno un lavoro,  e che, con i tempi che corrono, bisogna puntare al risparmio e ridurre al minimo gli sperperi, ma questa offerta è imperdibile!

Le illustro in cosa consiste. C’è la sauna, l’idromassaggio, la pedicure e un massaggio di 30 minuti incluso.
Praticamente meno di una ceretta, la sento sentenziare.

L’ho convinta, lo so. E, se non fosse che la spa è a Catania, se lo comprerebbe pure lei.  Mi lascia passare. Non mi ferma più nessuno. Deal acquistato.

Comunque, cerca di ponderare bene le spese che fai. Lo hai capito o no che  di questi tempi è meglio andarci cauti?
Certo mamma, non preoccuparti! Io lo so quello che faccio!

Proprio per questo mi riservo di raccontarle in un altro momento del biglietto comprato a prezzo maggiorato, pur di andare al concerto sold out dei Radiohead, a Roma.

Il treno ha fischiato. Ma è solo un arrivederci.

 

 

C’è un momento in cui tutti vanno via. I convenuti ad una festa, l’impiegato che ha finito il suo turno di lavoro. I personaggi di un libro appena finito di leggere.

Il senso di abbandono che lasciano certi saluti sa di momenti interrotti. Di cose mancate. Le persone vanno via e, pur sapendo che si tratta solo di un arrivederci, si lasciano alle spalle i titoli di coda prima della fine.

Arriva un momento, qui, in cui tutti vanno via. Con le loro valigie piene di vestiti e progetti. Non vado mica a stare dall’altra parte del mondo, dicono. Puoi sempre venire a trovarmi. Anzi, ti aspetto. Promettilo.

Ma perché andare via? Cos’è c’è altrove che non esiste qui?

Certe mattine mi verrebbe voglia di andare all’aeroporto, solo per il gusto di poter chiacchierare con ciascuno di voi e realizzare cosa mi sto perdendo. Altre volte, invece, sento l’invidia attaccarmi dentro, con la bocca serrata al mio stomaco. Vorrei farmi piccola tanto da poter viaggiare di valigia in valigia. Certe altre volte, vorrei che fosse il mio cuore grande quanto un ditale. Dove i sentimenti stanno stretti e l’affezione è poca. Non ci sarebbe posto per il rimpianto o la malinconia, lì dentro, che con così poco spazio a qualcosa dovrò per forza rinunciare.

Eppure, dopo 23 anni, la mattina mi sveglio con la strana sensazione di non volermi trovare altrove. Come temporeggiare in un caffé, pochi minuti prima che chiuda, perché ti trovi a tuo agio nella conversazione che porti avanti da un po’. Come rileggere da capo un libro, di cui sai già tutto, e per questo sai che non ti annoierà.

Io lo odio questo posto. Odio il compromesso, la vergogna di dover sottostare al potere delinquenziale per il quieto vivere. Ma non basta scappare lontano chilometri, per coprire la puzza di zolfo del vulcano. Ci sono precisi angoli della città, e strade, che sembrano braccia di mamma. E non basta tutto l’odio per ripudiarla.

Caro Nicolawski,
promettimi che tornerai. In fondo ce l’eravamo promesso che ci saremmo impegnati a cambiare le cose.

Catania 23 novembre 2011.