Quella cosa lì, quasi alla fine del mondo.

Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.
(Paul Valéry)

 

C’era una cosa che mi piaceva sentirmi chiedere, quando ero bambina.
Cosa vuoi fare da grande?
La domanda mi inorgogliva molto, perché io a differenza degli altri bambini ero convinta di sapere perfettamente cosa avrei fatto da grande. Era stata una decisione ponderata, la mia. Quasi un’illuminazione. Io sarei diventata un’archeologa. Lo decisi la sera in cui mia madre mi portò nell’antica Acropoli per una manifestazione culturale. Avevo otto anni. Da allora, tutte le mie scelte furono tese alla realizzazione del sogno. Quando in terza media le maestre chiesero a ciascuno di noi che scuola secondaria superiore avremmo scelto, io dissi “farò il liceo classico. Devo imparare il greco, io. Per diventare archeologa”.

Ero piccola, fragile e timida. Ma inspiegabilmente convinta del fatto mio.
I miei sogni andavano al di là della semplice previsione o delle semplici speranze. Erano qualcosa che stava lì, quasi alla fine del mondo. Irraggiungibile ma probabile.

L’infanzia instillava un senso di fiducia nel futuro innaturale e audace. Sembrava quasi che certe cose bastasse pensarle per ottenerle, che bastasse crederci per trovarmi già a metà dell’opera. E non contava tanto quello che facevo all’ora, lo reputavo piuttosto necessario per arrivare, passo dopo passo, a quello che volevo essere. Era fretta di crescere e ansia di vivere.

E poi, non ricordo com’è che l’hic et nunc soppiantò il futuro. Di punto in bianco, smisi di pensare a quello che sarei stata, perché incapace di sapere cosa farne di quella che ero. Cominciai a fare pensieri al presente indicativo, non più al futuro prossimo. E abbandonai il mio sogno, soppiantato da altri. Per lo più irrealizzati.

Non basta più desiderare così tanto una cosa per sentirla reale.
E’ ancora tutto lì. Quasi alla fine del mondo.