Lavoratori, tipi da spiaggia.

Fu uno dei fratelli di mio nonno ad annunciargli della strage di Portella della Ginestra, il 2 maggio del ’47. Nei paesi dell’entroterra, si sa, le notizie arrivano dopo.
Mio nonno non era comunista. Non era nemmeno socialista. Aveva aderito controvoglia anche al fascismo. Credo la sua intolleranza fosse democraticamente estesa a tutti gli -Ista del Paese. Era semplicemente un “uomo della terra”. Cattolico.
Queste le sole cose che abbia coltivato: la Terra e la Fede.
E forse, in quegli anni, fu più la Fede che la Terra a dare la forza di vivere.
Ad arare i campi ci pensarono prima i tedeschi e poi gli americani. Solchi grandi come crateri. E cadaveri e corpi di ogni esercito abbandonati, a far da fertilizzante.
Poi la guerra finì e a loro rimasero i solchi, i corpi e la Fede, fondamentale per ricomincirare.  Ed era già la seconda volta che mio nonno ricominciava.

La campagna era grande e di braccianti che lo aiutassero mio nonno ne ha sempre avuto bisogno. Erano in 3. Mio nonno li trattava con deferenza e rispetto. Loro non si approfittarono mai di quella fiducia incondizionata.  Ce n’era uno, “ucarusu”, che voleva bene ai miei nonni come fossero dei genitori. La sera, finito il lavoro nei campi, un fratello di mio nonno raccontava ai fratelli e cognate le gesta dei cavalieri di Ariosto. La sera “ucarusu” li ascoltava compiacersi di Orlando dal suo letto improvvisato sui sacchi di iuta e paglia. Se si addormentava prima che la storia finisse, la mattina, prima di scendere ai campi, chiedeva a mio nonno “Voscenza ma poi chi c’attruau Astolfo ‘nda Luna?”.

A mia nonna, che aveva imparato a memoria qualche aria lirica sentendola alla radio, la ascoltava cantare per imparare a sua volta le parole di quelle “canzoni”.

Il 2 maggio del ’47 fu uno dei suoi fratelli a dire a mio nonno della strage di Portella.
Dei duemila lavoratori presenti, la maggior parte erano contadini. Manifestavano contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte. A perdere la vita furono 11 persone. A rimanere feriti in 27. “Ucarusu” era lì con mio nonno. Aveva riportato, dai campi, le giumente. Dei latifondi, delle terre incolte non ne sapeva niente.
Ma che 11 persone fossero morte per “un pezzo di terra” lo aveva molto impressionato.

Sistemati gli animali, andò “alle case”. Era l’ora del rosario.
Mia nonna condivideva con mio nonno la democratica intolleranza verso tutti gli -Ista del Paese. La guerra aveva levato a entrambi molte cose, con la differenza che a lei la Prima Guerra portò via anche il Padre. La Fede, quella rimase sempre. Nell’entroterra della campagna siciliana poche cose “del continente” riuscivano a intaccare la monotonia della vita. C’era stata la guerra, ma si doveva lavorare lo stesso. C’erano le bombe, ma il mangiare si doveva preparare comunque.  E fin quando ci sarebbe stata la Fede e la Terra, si sarebbe sempre potuto ricomciare.

“Voscienza benerica. Ma ce la direste una corona di rosario anche per i morti di Palermo?”
Mia nonna era affezzionata a “ucaruso”. Lontani gli uomini per la guerra, aveva cresciuto i nipoti acquisiti e diretti. Per lei “u caruso” era uno di loro.
Chiese alle cognate in cerchio di fare posto.
“Veni qua, la corona di rosario gliela recitiamo tutti insieme”.

“Valvolina, ma ti ricordi di quando mia nonna raccontava che con tua nonna, le zie e “ucarusu” si misero a recitare la corona di rosario per i caduti di Portella della Ginestra?”
“Si, ma dov’è finita la DIAVOLINA per il barbecue?”

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